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    ISRAELE

    “Un gioco di equilibri per raggiungere gli obiettivi di Israele. Il piano Trump un’opportunità per costruire un futuro” – Intervista all’Ambasciatore Jonathan Peled

    È un diplomatico di carriera Jonathan Peled, l’Ambasciatore di Israele in Italia e San Marino. 63 anni, nato a Gerusalemme e cresciuto in un Kibbutz al nord d’Israele, Neot Mordechai, dove ha sperimentato in prima persona le sfide legate alla sicurezza, Peled è stato già Ambasciatore di Israele in El Salvador, Messico e Australia. Prima del suo arrivo in Italia era Vicedirettore Generale a capo della Divisione America Latina presso il Ministero degli Affari Esteri a Gerusalemme. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio per parlare delle difficoltà, dei cambiamenti e delle svolte di cui Israele è protagonista. “Per ripartire è necessario che l’accordo continui, che tutti gli ostaggi tornino a casa, senza togliere la pressione su Hamas. Questa è una tregua, perché la guerra non finirà fino a quando non ci libereremo dei terroristi” – spiega Peled.

    Ambasciatore, Israele vive uno dei momenti più duri e difficili della sua storia, iniziato con il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023. Gli obiettivi dello Stato di Israele in questa guerra erano colpire, eliminare Hamas, e riportare gli ostaggi a casa. Con l’accordo del cessate il fuoco è iniziata la liberazione degli ostaggi, ma anche di centinaia di terroristi palestinesi colpevoli di crimini gravissimi. Crede che Israele stia raggiungendo i suoi obiettivi?

    Io credo che Israele si stia avvicinando a raggiungere gli obiettivi prefissati. Con la prima fase dell’accordo stiamo portando a casa 33 ostaggi. L’incontro del Primo Ministro Netanyahu con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump rappresenta un passo importante in questa direzione,  per il ritorno di tutti gli altri ostaggi e per garantire che Hamas non abbia il controllo di Gaza, che Israele possa ritirarsi o ridispiegare le proprie forze. Si tratta quindi di un delicato gioco di equilibri con l’obiettivo che l’accordo continui e che gli ostaggi tornino a casa, senza però togliere la pressione su Hamas. Questa è una tregua, perché la guerra non finirà fino a quando ci sarà Hamas. Dobbiamo trovare un modo per liberarci dei terroristi e allo stesso tempo riportare gli ostaggi a casa. Si tratta di un processo molto delicato e difficile.

    In occasione dell’incontro con Benjamin Netanyahu a Washington, Trump ha annunciato che gli Stati Uniti prenderanno il controllo di Gaza. Come valuta questa scelta e quali saranno le conseguenze?

    Oggi è fondamentale considerare ed esaminare idee alternative per la gestione della Striscia di Gaza. È evidente che, allo stato attuale, Gaza non ha futuro. Stiamo cercando di trovare una soluzione diversa, un nuovo approccio. Credo che, insieme all’amministrazione statunitense guidata dal Presidente Trump, abbiamo l’opportunità di provare almeno a costruire un futuro migliore per noi e per l’intero Medio Oriente.

    Lei come vede il futuro di Gaza a lungo termine?

    Come ha detto il Presidente Trump in passato, fino a qualche anno fa Gaza poteva diventare come Singapore, un posto bellissimo: ha una bella spiaggia, la terra, e la gente lì è molto laboriosa. Perché io credo che i palestinesi, quando non hanno niente a che fare con il terrorismo, possano essere molto laboriosi. Se noi siamo riusciti a costruire dal deserto un paese fiorente, non c’è ragione per la quale Gaza non possa diventare in vent’anni una piccola Singapore, con alberghi, un’industria del turismo, ma spetta alla politica dei palestinesi fare la differenza e le scelte giuste.

    Hamas nel suo cinico show che mette in scena durante il rilascio dei rapiti, vuole dimostrare al mondo che non è stata sconfitta e che è forte. Cosa rivela secondo lei l’organizzazione terroristica con questa messa in scena? 

    Hamas rivela tre cose. Anzitutto, che è una organizzazione terroristica, cinica e barbara. In Occidente molti, troppi, sono inclini a considerare i terroristi di Hamas come fossero combattenti per la libertà, mentre nessuno di loro lo è. In secondo luogo, è un’entità che pratica il terrorismo psicologico su Israele. Infine, Hamas vuole dimostrare di non essere stato sconfitto o indebolito. Ma dobbiamo considerare la situazione nella sua interezza: sta cercando di mostrare i muscoli, ma non ha più nulla. Certo esiste ancora, non è stato annientato del tutto. Adesso tutti, Israele, Egitto e gli altri paesi, devono fare la loro parte e capire che c’è una condizione imprescindibile: Hamas non può più far parte del gioco. Purtroppo non possiamo eliminare tutti i terroristi dell’organizzazione, ma con una pressione sufficiente, militare e politica, possiamo sbarazzarci di loro.

    Fatto sta che, come ha detto lei stesso, in Europa, negli Stati Uniti e in tanti paesi, buona parte dell’opinione pubblica ha creduto sino ad oggi alla propaganda, alle bugie di Hamas. Secondo lei come è possibile far prendere coscienza a queste persone che Hamas e il terrorismo islamico in generale rappresentano una minaccia, un pericolo per tutto l’Occidente?

    La triste realtà è che sfortunatamente il mondo sbaglia e non capisce cosa stia affrontando Israele. Forse le immagini della liberazione degli ostaggi fanno comprendere alle persone quanto la condotta dei terroristi di Hamas sia bestiale e disumana. Non vorrei mai che un paese in Europa dovesse subire il terrorismo prima di capire per cosa Israele sta combattendo. Quello che dobbiamo fare è spiegare a tutti, amici e non, la vera natura di Hamas.

    Il direttore

    Gli israeliani hanno dimostrato una grande unità, resilienza e solidarietà. In questo anno e mezzo il capitale umano d’Israele ha fatto la differenza. Come uscirà Israele dal trauma del 7 ottobre?

    Ci vorrà del tempo, la restituzione degli ostaggi è la prima fase del nostro recupero. Solo quando torneranno tutti potremo iniziare ad uscire dal trauma. È come se fosse una ferita: prima si presta il primo soccorso, poi si cura, dopo arriva la fisioterapia. Finché non si torna alla normalità. Dobbiamo prima riavere tutti gli ostaggi, anche se purtroppo alcuni di loro non verranno restituiti vivi.

    Alcuni hanno affermato che la modalità in cui si è svolto il massacro del 7 ottobre, la prigionia degli ostaggi, il loro ritorno e il trauma stesso, siano elementi che ricordano cosa è avvenuto durante e dopo la Shoah.

    Probabilmente è così per i sopravvissuti alla Shoah. Io appartengo alla seconda generazione e non ho vissuto la Shoah in prima persona, i miei genitori invece si, ma oramai non ci sono più. I sopravvissuti in vita sono pochi ed io sono sicuro che quello che Israele ha vissuto dal 7 ottobre abbia ricordato loro la Shoah. Personalmente non credo che bisogna paragonare la Shoah al 7 ottobre, ma è innegabile che ci siano degli elementi comuni.

    Lei è un diplomatico di carriera con molta esperienza. Come valuta il ruolo dell’Italia e dell’UE in questa crisi?

    L’Italia sta svolgendo un ruolo positivo, perché è a fianco di Israele nel suo diritto all’autodifesa. Ha espresso solidarietà e anche politicamente ha sostenuto Israele all’Unione Europea a al G7 per condannare Hamas. Ma c’è ancora molto da fare. L’Italia è anche impegnata con altri paesi del Medio Oriente: in Libano, in particolare, ha la forza Unifil e sta aiutando ad addestrare l’esercito libanese. Vuole anche svolgere un ruolo importante a Gaza, con gli aiuti umanitari, fare la sua parte in un futuro accordo. Insomma, l’Italia è un attore importante, vuole aiutare, noi stiamo lavorando per fare in modo che possa farlo ancora di più. L’Unione Europea presenta invece correnti diverse. Vorremmo che l’Italia si avvicinasse ancora di più alle posizioni di Germania, Ungheria, Repubblica Ceca e Austria. Con altri paesi abbiamo più difficoltà a relazionarci, viste le loro posizioni, come la Spagna, Irlanda, i Paesi scandinavi. In questo quadro lo Stato italiano è nel mezzo, ma faremo tutto il possibile affinché sia sempre più vicino a noi.

    Prima del 7 ottobre 2023, le relazioni tra Italia e Israele erano focalizzate sugli interscambi, le relazioni bilaterali sul piano economico e culturale. Queste attività continuano? Quali sono i progetti futuri?

    Le relazioni bilaterali sono eccellenti. È assolutamente così, prima del 7 ottobre la cooperazione era molto ampia in molti campi. Avevamo siglato l’accordo con Giorgia Meloni G2G insieme a 7 ministri, e avrebbero dovuto recarsi in Israele per una serie di incontri finalizzati alla firma di accordi e alla cooperazione. Vorremmo riavviare tutto questo. Il ministro degli Esteri Tajani è andato in Israele con una delegazione di uomini d’affari, ciò dimostra che c’è piena attività tra Italia e Israele. Possiamo iniziare ad esaminare e ad avviare nuovi progetti, che sono stati sospesi dopo il 7 ottobre. Anche la prossima visita del vicepremier Salvini è un buon segnale. C’è un grande interesse da entrambi i paesi a dare nuovo impulso alla già eccellente cooperazione.

    Dal 7 ottobre viviamo un ritorno impressionante di un antisemitismo feroce. Soprattutto nel mondo universitario, ma anche nelle scuole e nelle strade. Secondo lei cosa si può fare per contrastare questi fenomeni?

    Questa nuova ondata di antisemitismo è allarmante e preoccupante, ma dovrebbero esserne allarmati in primo luogo l’Italia, la Germania e tutti i paesi democratici in cui si manifesta. L’antisemitismo è un problema delle democrazie, non solo degli ebrei. Purtroppo dal 7 ottobre stiamo assistendo a una combinazione micidiale di fake news, disinformazione, elementi radicali e anarchici. Lo vediamo nelle manifestazioni, anche in Italia, dove l’antisemitismo è un problema. Si tratta di un mix pericoloso, esplosivo. Questo è quel che accade oggi: si sono combinati tanti elementi, che rappresentano una minaccia per la società di molti paesi. Le comunità ebraiche e Israele devono assicurarsi che i paesi affrontino questo problema in modo adeguato.

    Come descrive la collaborazione dell’Ambasciata con le comunità ebraiche, nello specifico quella di Roma, che ha un legame profondissimo con Israele?

    La comunità ebraica di Roma è antica, preziosa e molto sionista. Collaboriamo molto bene, anche con le altre comunità, come con quella di Milano. Dobbiamo lavorare insieme perché affrontiamo molte sfide comuni. Dobbiamo anche chiarire però alla società che i membri delle comunità italiane sono cittadini italiani. Noi siamo ebrei israeliani, gli ebrei italiani sono nati qui e vivono qui. È una distinzione rilevante, altrimenti si rischia di fare confusione.

    Ma c’è una grande identificazione tra molti ebrei della Diaspora e Israele. Dal 7 ottobre la Comunità Ebraica di Roma ha aderito e organizzato eventi e manifestazioni in sostegno allo Stato ebraico.

    La solidarietà e il sostegno della Comunità Ebraica di Roma e delle comunità italiane sono stati fortissimi e importanti per tutti noi. Abbiamo visto e apprezzato l’evento al Tempio Maggiore per il primo anniversario del 7 ottobre, organizzato assieme alla Comunità di Roma, dove c’è stata molta partecipazione, anche del mondo politico, a cominciare dal Primo Ministro Giorgia Meloni e tutto il governo. Credo che per la comunità sia altrettanto rilevante sapere che Israele sostiene la Diaspora.

    Gli Stati Uniti sono un partner storico dalla fondazione dello Stato d’Israele. Come vede il futuro delle relazioni con il neopresidente Donald Trump?

    Gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto Israele con cui condivide valori e interessi. Un sostegno che è sempre arrivato sia dai democratici che dai repubblicani. Il presidente Biden è stato un grande amico d’Israele e abbiamo sempre espresso a lui le nostre critiche. Anche con alcuni presidenti repubblicani abbiamo avuto momenti difficili. Con Trump abbiamo una grande opportunità, perché lui può fare sentire la pressione su tutti gli attori del Medio Oriente. Trump punta a spegnere i conflitti nel mondo, non vuole che israeliani e palestinesi si combattano. Potrebbe porre tutti i protagonisti davanti a scelte non facili. È un’opportunità, ma anche una sfida.

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