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    ISRAELE

    Un blocco politico

    Il ritiro delle grandi unità
    Ha fatto molta impressione in Israele la notizia che proprio in concomitanza con l’anniversario del sesto mese dal 7 ottobre, le forze armate israeliane avessero finito di ritirare anche dalla parte meridionale di Gaza e specificamente da Khan Yunis le maggiori unità dell’esercito: la conclusione di un ritiro progressivo, iniziato ormai più di un mese fa. Ora nella striscia vi sono solo reparti relativamente piccoli, che sorvegliano gli assi stradali per impedire un ritorno incontrollato degli sfollati e gruppi speciali che con l’aiuto dell’aviazione danno la caccia ai terroristi. I vertici politici e quelli militari hanno chiarito che ciò non prefigura affatto la fine della guerra né tanto meno l’accettazione della richiesta di Hamas dell’abbandono di Gaza. Ma si tratta di uno sviluppo significativo che richiede spiegazioni. E queste spiegazioni permettono di capire molte cose sullo stato attuale della guerra.

    Addestramento ed economia
    La prima ragione, ufficialmente avanzata dallo Stato Maggiore, è che le divisioni sono state ritirate per addestrarle all’attacco di Rafah (che però verosimilmente non sarà molto diverso da quello avvenuto nelle altre città di Gaza) o forse per una non improbabile estensione della guerra al nord. La seconda spiegazione è economica: tenere sotto le armi per altri mesi centinaia di migliaia di persone che al momento non sono utilizzate ha un costo per l’economia che Israele non può permettersi di sostenere. Meglio dunque congedare quelli che non sono utilizzati, per farli tornare al lavoro fino a quando non saranno forse di nuovo richiamati.

    Tattica
    La terza spiegazione è tattica: tenere fermi dei grossi reparti militari in territorio nemico, senza utilizzarli, significa esporli alle tattiche della guerriglia e dunque a uno stillicidio di pericolosi attacchi mordi-e-fuggi. In sostanza, se Israele non attacca Rafah, è meglio che l’esercito non sia esposto al fuoco nemico e che solo i gruppi speciali che danno la caccia ai terroristi restino nella Striscia. Ma lo spostamento delle divisioni sembra dire che l’attacco non è imminente, anche se le forze ci sono, i piani sono stati definiti e Netanyahu ha dichiarato di aver perfino stabilito una data. Distruggere i restanti battaglioni di Hamas che si nascondono a Rafah non è certo un obiettivo al di là delle forze di Israele; e anche gestire gli sfollati è tecnicamente possibile.

    L’opposizione internazionale
    Questo blocco non deriva da una scelta dei dirigenti di Israele, che a ogni occasione ribadiscono tutti, al di là dei dissensi politici, la necessità di arrivare a Rafah per completare la conquista di Gaza; ma dal veto di Biden e dall’opposizione generalizzata degli stati e dei media occidentali, che si uniscono sempre più chiaramente agli alleati dell’Iran (Mosca, Cina, Sudafrica molti paesi islamici fra cui la Turchia, i neo-comunisti del Sudamerica e in genere i governi di sinistra, dall’Australia a Canada a paesi europei come Belgio, Spagna, Irlando, Norvegia). L’attacco a Rafah, che sarebbe decisivo nel risolvere la guerra, non può iniziare proprio per questa ragione, perché sarebbe la vittoria di Israele sul terrorismo e stabilirebbe un modello; ma molti paesi non vogliono che Israele vinca e che Hamas sia spazzato via – o per ragioni derivanti dalla loro politica interna e dalle alleanze internazionali pongono tante e tali condizioni ai combattimenti da rendere impossibile la vittoria, che pure dicono di auspicare in teoria. Ciò fa sì che non solo i paesi esplicitamente antisraeliani, come quelli che ho citato prima, ma anche quelli che si dicono amici di Israele (prima di tutto gli Usa, ma anche la Gran Bretagna, la Francia e per certi versi perfino l’Italia) esprimono continuamente “preoccupazioni”, richiedono “cautele” e “provvedimenti umanitari” che di fatto minacciano l’isolamento di Israele come prezzo per la prosecuzione della guerra.

    Una propaganda menzognera
    Non si tratta solo delle menzogne sui numeri dei “bambini uccisi” (“12 milioni” secondo una folle dichiarazione del presidente brasiliano Lula), dei demenziali discorsi sul “genocidio di Gaza”. della sopravvalutazione di alcuni incidenti che capitano in tutte le guerre, come la morte di alcuni operatori umanitari scambiati per truppe di Hamas, di cui Israele si è prontamente scusato. Ogni argomento è buono. C’è stato uno scandalo, per esempio, sulla “rivelazione” di un sito di estrema sinistra israeliana, prontamente ripreso da giornali di mezzo mondo e diffuso in rete, per cui l’esercito israeliano userebbe un software di intelligenza artificiale come filtro preliminare per autorizzare gli attacchi a terroristi di Hamas. Si tratta ovviamente di una garanzia in più, che sottopone a una valutazione oggettiva i sospetti della presenza nemica durante le difficilissime operazioni di combattimento contro nemici travestiti da civili e nascosti fra loro; la responsabilità poi ovviamente resta dei soldati che combattono e dei loro comandanti. Ma è bastata l’esistenza di questo software a proiettare ancora una volta contro Israele un’immagine mostruosa e disumana, tratta pari pari dalla tradizione antisemita.

    La guerra insomma è oggi bloccata. Israele continua a eliminare i terroristi a Gaza e nel Libano, a eliminare le loro infrastrutture (tunnel, depositi, fabbriche d’armi), ha appena concluso la seconda importantissima operazione all’ospedale (si dovrebbe piuttosto dire: la caserma) AlShifa, dove ha arrestato e eliminato centinaia di terroristi, scoprendo numerose armi e importanti documenti di intelligence. Ma non può procedere per ora né a eliminare il pericolo terrorista al nord, né a Gaza e neppure può liberare i rapiti, su cui Hamas, sentendosi rafforzato dalla demonizzazione internazionale di Israele, rifiuta anche di iniziare le trattative se Israele non si ritira e finisce la guerra dichiarandosi in sostanza sconfitto. Da questo blocco prima o poi bisognerà uscire. Netanyahu, al contrario di quel che dicono gli antisemiti nei giornali e in rete, non mostra nessuna arroganza o follia bellicista, ma da mesi cerca pazientemente di riportare l’America alla scelta comune di sconfiggere il terrorismo. Ha ottenuto qualche risultato, per esempio sono ripresi gli indispensabili rifornimenti di armi e munizioni. Ma non ha smosso il veto di Biden su Rafah. Israele pazienta. Ma prima o poi dovrà agire per non perdere la vittoria costruita finora, col consenso degli Usa o meno E quello sarà il momento più difficile per Israele e per gli ebrei del mondo.

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