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    Spade di ferro giorno 68 – Il problema del Libano e quello dello Yemen

    La situazione a Gaza

    L’operazione dell’esercito israeliano a Gaza prosegue secondo le linee della terza fase, cioè l’assedio alle roccaforti terroristiche. Vi sono stati sostanziali progressi al nord, a Jabalyia, dove ci sono state ulteriori rese dei terroristi e scoperte di depositi di armi e materiali militari. Sono più indietro le conquiste di Khan Yunis, dove sono probabilmente nascosti i massimi dirigenti di Hamas ma anche i rapiti, il che rende più difficile e delicato il lavoro dell’esercito israeliano. L’azione israeliana si è estesa ancora a sud, a Rafah, la città del confine con l’Egitto e dei tunnel di contrabbando da cui sono entrati tanti materiali militari e da dove possono cercare di fuggire i capi terroristi. Da un po’ di tempo non vi sono novità (almeno sui media) riguardo a Gaza city, dove restano ampie zone ancora da bonificare. Ma è chiaro che si tratta ora di una questione di tempo, che l’armata terrorista è sulla difensiva se non proprio in rotta e non ha speranza di rovesciare la situazione. Tant’è vero che vi sono state aperture negoziali da parte israeliana per un nuovo scambio di rapiti con terroristi palestinesi detenuti, contemplando anche la possibilità di una sospensione dei combattimenti. Ma questi tentativi sono stati nettamente respinti da Hamas, che ha dichiarato che per iniziare a trattare vuole che Israele rinunci all’azione militare. L’aggiunta, agghiacciante, è che se la sue richieste non saranno soddisfatte, Hamas è disposta a uccidere tutte le persone che ha rapito. Di alcuni sappiamo che l’ha già fatto, sono state rinvenute delle salme. Ora si profila un ricatto totale. Ma la minaccia in sé di assassinare centocinquanta persone disarmate e imprigionate mostra un livello di criminalità talmente spudorata che dovrebbe colpire tutti, essere non solo una preoccupazione di Israele, ma un problema di natura globale.

     

    Gli altri fronti

    La pericolosità del conflitto si alza sugli altri fronti. C’è il Libano, dove gli scambi sono quotidiani e vi è un dibattito in Israele su come può procedere il confronto con Hamas. Vi è chi, come il capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi, che ha dichiarato che Israele non ha interesse all’escalation e il suo comportamento lo dimostra. Altri, fra cui il Ministro della difesa Gallant dicono che non sarà possibile riportare a casa dopo la fine della guerra a Gaza gli abitanti della Galilea  se non vi sarà una garanzia sulla loro possibilità di vivere tranquillamente senza la paura di essere bersaglio dei razzi dei terroristi o peggio di un’azione come quella del 7 ottobre. Perché questa garanzia ci sia, il minimo è che Hezbollah si ritiri a nord del fiume Litani, una quindicina di chilometri a nord del confine israeliano, come stabilito dalla delibera dell’Onu che mise fina alla guerra in Libano del 2006. Secondo Gallant, questo ritiro va ottenuto con mezzi diplomatici, se possibile, altrimenti con mezzi militari, il che implica una nuova fase della guerra. Vi è anche il fronte di Giudea e Samaria, dove continua l’azione di polizia, in particolare a Jenin, per eliminare le cellule terroristiche. Va notata a proposito una dura dichiarazione di Netanyahu il quale ha detto che la differenza fra Hamas e l’Autorità Palestinese sta solo nel fatto che il primo tenta di uccidere gli israeliani subito e la seconda attende il momento più opportuno; ma lo scopo è lo stesso.

     

    Lo Yemen

    Ma il fronte che sembra più in sviluppo è quello marittimo intorno allo stretto di Bab el Mendeb, fra Yemen e Gibuti. Dallo Yemen i terroristi Houti, che avevano già rapito dieci giorni fa una nave, da loro presunta di proprietà israeliana, e danneggiate in seguito altre due, hanno dichiarato l’altro ieri di considerare loro obiettivi non solo ogni naviglio di proprietà israeliana, ma anche tutte le navi di qualunque bandiera e proprietà che portano merci verso Israele: un vero e proprio blocco navale su una delle vie di navigazione più importanti e trafficate del mondo. Dopo aver sparato l’altro ieri su una nave militare francese, che ha abbattuto i missili me non ha replicato al tiro, ieri hanno colpito con un missile da crociera una petroliera norvegese, la “Strinda”, provocando un grave incendio. La ragione addotta dagli Houti, armati e finanziati dall’Iran, è che la Strinda sarebbe stata diretta in Israele. Il che naturalmente è del tutto illegale dal punto di vista del diritto internazionale, e sembra sia anche fattualmente sbagliato: pare infatti che la petroliera fosse diretta in Italia. Si tratta di una situazione evidentemente inaccettabile, che rischia di creare problemi all’Europa ancor più che a Israele. I giornali israeliani affermano che, probabilmente su richiesta dell’Arabia Saudita, Biden avesse domandato qualche tempo fa a Netanyahu di non rispondere agli attacchi degli Houti, quelli marittimi come quelli ripetutamente condotti da loro con missili di lunga portata forniti dall’Iran contro il territorio israeliano (che dista circa 1700 chilometri). Israele aveva accettato questa richiesta, a patto che gli Stati Uniti provvedessero a garantire la tranquillità della navigazione nello stretto. Ma oggi i media israeliani hanno riferito con rilievo che le nuove modernissime e ben armate corvette israeliane Sa’ar 6, entrate in servizio due anni fa, sono entrate nel Mar Rosso per la loro prima missione di guerra. È probabile che la loro missioni riguardi proprio i ribelli Houti.

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