Che cosa succede
Alle prossime elezioni politiche israeliane, le quinte in quattro anni mancano più di tre mesi e mezzo: sono previste il 1° novembre. Ma già la macchina elettorale, fatta di dichiarazioni, sondaggi, alleanze, polemiche, fusioni e separazioni è in piena attività. Prima del termine per depositare le liste, tutti i partiti e i leader cercano di posizionarsi al meglio e di attrarre l’attenzione di un’opinione pubblica che ai sondaggi appare piuttosto scettica e rassegnata.
Il ruolo di Shaked
Dopo le dimissioni da primo ministro di Naftali Bennett, sostituito nel ruolo da Yair Lapid, e la sua ulteriore rinuncia a presentarsi alle prossime elezioni, il nuovo leader del partito di destra Yamina è Ayelet Shaked, che anche nei momenti più duri di scontro aveva cercato di tenere una certo contatto con il Likud di Bibi Netanyahu, tanto che si era parlato di una sua possibile adesione a questo partito, suscitando reazioni di rifiuto da parte di alcuni suoi parlamentari. Ora sembra che Shaked guiderà Yamina alle elezioni e potrebbe allearsi col Likud, ma i sondaggi mettono in dubbio la possibilità di entrare nel prossimo parlamento.
I partiti che forse non entreranno alla Knesset
Fra i partiti a rischio vi sono anche l’estrema sinistra di Meretz e i due movimenti centristi di Saar (“Speranza”) e di Gantz (Azzurro-bianco). Si parla con insistenza della possibilità di una fusione, almeno sulla scheda elettorale, di Meretz con quel che resta del vecchio partito laburista, e anche dei due partiti centristi. Sarebbe una semplificazione di un quadro elettorale estremamente frammentato (13 erano i partiti all’ultima Knesset), ma, nel caso dei centristi anche un tentativo di far concorrenza a Yesh Atid, il partito del nuovo primo ministro Lapid, che è già il maggiore dell’area di centrosinistra, accreditato dai sondaggi di una ventina di seggi sui 120 della Knesset. Il destino di Meretz è invece sospeso, perché vi è una contesa per la leadership: l’attuale leader Nitzan Horowitz è stato sfidato da Yaur Golan, ex vicecapo maggiore dell’esercito e ministro nell’attuale governo, che ha fatto scandalo con affermazioni molto insultanti nei confronti degli israeliani che vivono negli insediamenti al di là della linea verde. Il nuovo leader deciderà.
Le uscite dalla politica
Vi sono poi degli abbandoni della vita politica. A destra non si presenta più alle elezioni nella lista del Likud un vecchio e fedele collaboratore di Netanyahu, Yuval Steinitz, più volte ministro negli ultimi decenni, che ha dichiarato di volersi dedicare alla famiglia; a sinistra se ne va dalla lista di Meretz l’attuale ministro della Cooperazione Regionale Esawi Frej, anche lui come Golan al centro di furiose polemiche negli ultimi mesi. Se vi si aggiunge l’uscita di Bennett, questi abbandoni vanno letti come segni di crisi non solo personali, ma del sistema politico nel suo complesso.
Le ragioni della turbolenza
Per capire quel che succede, bisogna guardare sia alla situazione politica che al sistema elettorale. La politica israeliana da alcuni anni non è polarizzata tanto in senso sociale, economico e neppure politico, ma si divide innanzitutto fra quelli che sono disposti ad appoggiare Netanyahu come primo ministro (soprattutto nel centrodestra e nei partiti religiosi) e quelli che non lo vogliono a nessun costo: la sinistra, il partito integralista arabo, ma anche frammenti del centro e della destra mossi da ragioni personali di rancore. I due blocchi si equivalgono quasi. L’ultimo governo raccoglieva tutti i “no-Bibi” dalla destra all’estrema sinistra, ma ha dimostrato di non poter governare, anche perché contava solo 61 sostenitori in Parlamento su 120.
Il sistema elettorale
In Israele la Knesset è eletta con un sistema proporzionale puro a collegio unico nazionale, con una soglia di ingresso molto bassa (il 3,25% che corrisponde a 4 deputati, poco più di 120 mila voti). C’è una grande frammentazione, per cui molti partiti sono molto vicini, sopra o sotto a questo limite. Se un partito non supera la barriera di ingresso, i suoi voti sono dispersi, i quattro deputati che avrebbe vinto superando la soglia non restano nello schieramento corrispondente a quel partito ma sono divisi fra tutti, in proporzione ai voti. Almeno due vanno agli avversari. Dunque che Meretz o Yamina, Sa’ar o Gantz ce la facciano o meno cambia completamente le prospettive politiche; il fallimento di uno solo può assegnare la maggioranza all’altro schieramento. E inoltre dà un potere importante o lo toglie del tutto al leader di quel partito.
Una democrazia che fa fatica a decidere
La logica consiglierebbe di federarsi in grandi schieramenti, ma in Israele questo non funziona, perché la personalizzazione elettorale è molto forte. Dunque le manovre che ho raccontato, e le molte altre che seguiranno, servono per cercare di assicurare la vittoria di una parte o dell’altra, ma anche per dare potere a questo o a quel leader. Bisogna aggiungere che come in Italia le liste vengono decise dai partiti, spesso ma non sempre con le elezioni primarie, che non ci sono le preferenze e anche che l’importanza dei singoli parlamentari dipende dal posto in lista e dagli eventuali incarichi governativi, i quali sono assegnati come conseguenza dei voti nelle elezioni primarie o spesso anche solo per le scelte del leader. Insomma, quella israeliana è una democrazia vera, in cui il voto degli elettori decide chi vince e può mandare a casa partiti e governanti che non piacciono – il che non accade quasi in nessun altro paese della regione. Ma il sistema è anche molto confuso e tortuoso, negli ultimi tempi incapace di produrre governi stabili. La speranza degli israeliani è che questa volta finalmente ci riesca.