Da Israele all’Arabia Saudita
La visita di Biden in Israele si avvia ormai alla conclusione. Dopo gli incontri di ieri (con Lapid, Netanyahu, Herzog) la visita a Yad Vashem e l’apertura della maccabiade, oggi il presidente americano vola in Arabia Saudita a incontrare Mohammed bin Salman (MBS per i giornali occidentali), il principe ereditario della dinastia saudita, che egli aveva promesso due anni fa, durante la sua campagna elettorale, di trasformare in un “paria” per la sua supposta partecipazione come mandante all’uccisione del militante islamista e giornalista Jamal Kashoggi in Turchia. Biden si è giustificato di fronte ai conseguenti attacchi della stampa americana dicendo la pura verità: che gli Usa non possono fare troppo gli schizzinosi sui loro alleati mentre sono impegnati in un duro confronto con la Russia e la Cina. Ma certamente questa dichiarazione realistica non è fatta per piacere alla sinistra del suo partito, né potrà però renderlo particolarmente simpatico ai sauditi. Sgradito da una parte e dall’altra, con un indice di sostegno in patria che è il più basso da molto tempo, Biden è certamente a disagio.
L’accoglienza israeliana
La stessa scomoda situazione di sedersi fra due sedie o di dover accontentare due forze contraddittorie è il segno del viaggio che Biden ha fatto in Israele: da un lato il presidente doveva ovviamente cercare di mostrarsi cordiale con Israele, che comunque dice molto all’elettorato americano e che rappresenta da sempre il più fedele alleato dell’America. Ma dall’altro la stampa e la sinistra democratica sono decisamente antisraeliani e semmai appoggiano il piano fallimentare di un nuovo accordo con l’Iran che sia Israele sia i sauditi vedono come un gravissimo pericolo. Certamente i leader israeliani hanno fatto tutto il possibile per fargli sentire l’amicizia di Israele per il suo paese. il presidente Herzog gli ha concesso la medaglia presidenziale, le accoglienze ufficiali sono state condotte con rigore formale e calore umano da tutto l’arco delle forze politiche, gli atti che potevano metterlo in imbarazzo, come i bombardamenti per distruggere i rifornimenti iraniani ai terroristi in Siria e in Libano, le perquisizioni delle città non più controllate neppure dall’Autorità Palestinese come Jenin, o le costruzioni negli insediamenti ebraici sono stati tutti sospesi per evitare incidenti.
Atti politici contraddittori
Ma quel che conta sono i gesti politici. E Biden, qui ha mostrato la solita ambiguità. Ha sottoscritto una “Dichiarazione di Gerusalemme” in cui si dice che l’amicizia fra America e Israele è inscalfibile, che gli Usa faranno tutti gli sforzi per evitare un Iran nucleare (ma poi in un’intervista ha precisato che l’opzione militare esiste, ma è proprio l’extrema ratio). La dichiarazione però, come qualcuno l’ha definita, è più “una lettera d’amore” che un documento politico o diplomatico vincolante e quindi non bisogna farci troppo conto. Biden è stato anche il primo presidente americano ad attraversare la linea verde dell’antica divisione di Gerusalemme, non come aveva fatto Trump per visitare il Kotel o “Muro del Pianto”, bensì per recarsi a una cerimonia in un ospedale gestito dall’Autorità Palestinese in un quartiere arabo dentro i confini della capitale di Israele, e ha tenuto a far sapere che aveva proibito agli israeliani di essere presenti.
Il problema del consolato
È un gesto che sottolinea simbolicamente un rifiuto di accettare l’appartenenza a Israele di tutta Gerusalemme e che sostituisce quel che Biden ha dichiarato di voler fare, ma su cui non ha avuto il necessario consenso israeliano, e cioè riaprire ufficialmente il consolato di Gerusalemme come rappresentanza degli Usa verso l’Autorità Palestinese. Di fatto il “consolato” funziona oggi proprio così, non dipende dall’ambasciata americana in Israele ma direttamente da Washington. Ma Israele non ha voluto subire lo sgarbo di avere nella propria capitale la rappresentanza diplomatica che interloquisce con uno stato estero, per di più guiridicamente inesistente o se si preferisce, con un’Autorità nemica.
Le conclusioni della visita
Il risultato è che Biden non ha particolarmente convinto gli israeliani, ottenendo da loro buone parole (“uno dei più grandi amici di Israele da sempre” l’ha definito Lapid) e qualche atto non particolarmente rilevante (l’aumento dei rifornimenti militari all’Ucraina), ma non altro. D’altro canto non ha cambiato l’atteggiamento dell’Autorità Palestinese, che ha continuato a pretendere in maniera molto poco diplomatica e petulante che gli Usa costringessero Israele a cedere sulle loro richieste, giuste o sbagliate che fossero. Tanto meno ha cambiato la posizione dell’Iran, il quale ha sostenuto ripetutamente che la presenza americana nella regione è una provocazione e un rischio per la pace, minacciando rappresaglie tremende se America e Israele faranno degli “errori”.
Il viaggio insomma finora è stato un successo formale, si è svolto puntualmente e cordialmente, ma non ha risolto i problemi politici che Biden ha di fronte, perché mancava di obiettivi chiari e cercava di conciliare posizioni contraddittorie. Un bilancio definitivo si potrà fare solo dopo la visita ad Abbas che si svolge oggi Betlemme (non a Ramallah, forse per evitare contestazioni, o per non mostrare di accettare il fatto che proprio Ramallah è il capoluogo del piccolo cantone amministrato dall’Autorità Palestinese), e soprattutto dopo quella in Arabia. Ma forse non è troppo presto per concludere che essa ha avuto più un significato cerimoniale e comunicativo che un valore politico effettivo.