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    Pubblicate nuove informazioni su come Ron Arad fu catturato dai terroristi

    L’esercito israeliano e i prigionieri

     

    Fra le molte cose che rendono diversa da tutti gli altri eserciti del mondo Tzahal (che è la sigla ebraica di Tzva HaHagana LeYisra’el, “forza di difesa di Israele”), una delle più note e importanti è l’attenzione infinita che essa dedica alla liberazione dei soldati prigionieri e al recupero delle loro spoglie, quando purtroppo sono stati uccisi. Un caso emblematico, ma certo non isolato, di questa enorme attenzione è lo scambio avvenuto il 18 ottobre 2011, fra il caporale israeliano Gilad Shalit, sequestrato dai terroristi di Hamas, e ben 1027 prigionieri delle carceri israeliane, regolarmente condannati dai tribunali per reati gravissimi di terrorismo, fra cui molti per omicidio.

     

    La situazione attuale

     

    Ancora oggi Hamas detiene i corpi dei due soldati Oron Shaul e Hadar Goldin – uccisi a Gaza durante l’Operazione Margine Protettivo del 2014 – nonché tiene nascosti da anni Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, due civili mentalmente instabili che hanno attraversato il confine con Gaza. E anche in questo caso le pretese dei terroristi per lo scambio sono altrettanto sproporzionate. Vale la pena di dire che queste posizioni (da un lato la tutela della vita e delle salme umane, dall’altro il tentativo di usarle come moneta di scambio) hanno a che fare con lo sfondo religioso di Israele e degli islamisti. L’ebraismo considera la liberazione dei prigionieri una mitzvà, un precetto.

     

    Il caso Arad

     

    L’esempio più famoso dell’etica di Tzahal per cui “non si lascia mai nessuno indietro” è quello del navigatore di volo Ron Arad. Nel 1986, durante una missione sul cielo del Libano, Ron Arad fu costretto a eiettarsi dal suo aereo danneggiato dall’esplosione prematura di una bomba, insieme al suo pilota Yishai Aviram.  Arad fu catturato dal gruppo terrorista sciita Amal e probabilmente ceduto da Amal a Hezbollah, portato in Iran e poi riportato in Libano. Fino al maggio del 1988 i suoi sequestratori fecero pervenire in Israele alcune lettere e fotografie, nel tentativo di ottenere un cospicuo riscatto. Da quella data invece di Arad non si sa più nulla. Da tempo le autorità israeliane ritengono che Arad sia morto molti anni fa, probabilmente già nel 1988, sebbene i rapporti dell’intelligence differiscano per quanto riguarda le circostanze, i tempi e il luogo della sua morte. Nel 2016, un rapporto indicava che Arad era stato torturato a morte e sepolto nel 1988 vicino a Beirut. Ma una commissione dell’esercito israeliano del 2004 ha concluso che Arad era morto negli anni ’90 dopo che, ammalato o ferito, gli erano state negate le cure mediche. Ancora qualche mese fa l’allora primo ministro Bennett aveva parlato alla Knesset di “una vasta, coraggiosa e complessa operazione del Mossad”, che però non ha ottenuto il suo scopo.

     

    Le nuove notizie sulla cattura

     

    Nei giorni scorsi sono uscite in Israele nuove notizie sulla cattura di Arad, in particolare il verbale di una drammatica sessione della Commissione esteri e difesa della Knesset (il parlamento israeliano), tenuta a pochi giorni dalla cattura di Arad. La riunione fu aperta da Yitzhak Rabin, allora ministro della difesa. I dettagli furono forniti da Amos Lapidot, comandante dell’aviazione. Si trattava di una missione particolarmente impegnativa, ha detto il generale, “condotta da sei alle 15.45 di giovedì 16 ottobre 1986 da sei aerei Phantom, ciascuno armato con 10 bombe. Alla fine del bombardamento improvvisamente ci fu una fortissima esplosione che danneggiò l’ultimo aereo e lo fece cadere all’altezza di circa 3000 metri. Il pilota dell’aereo, Aviram, ha riferito che si era sentito svenire e che aveva ripreso conoscenza appeso al paracadute. Aviram ha riferito anche di aver visto Arad appeso al suo paracadute e di aver cercato di contattarlo per radio senza successo.

     

    L’arrivo a terra

     

    Sempre secondo il racconto di Lepidot, “il pilota e il navigatore hanno impiegato dai quattro ai cinque minuti per atterrare ed erano stati sotto tiro per la maggior parte della loro discesa. Arad e Aviram atterrarono circa quattro chilometri a sud del bersaglio. Aviram entrò in un wadi vicino e lì si nascose tra la macchia. Secondo quanto riferito, è stato in grado di vedere Arad da una distanza di circa 200 metri, lo ha chiamato, ma non ha ricevuto risposta.

     

    Il tentativo di soccorso

     

    Tzahal ha tentato una manovra “complicata e drammatica” per impedire che Aviram e Arad venissero rapiti dai terroristi nell’area. Uno degli elicotteri da combattimento schierati nella missione è riuscito a raggiungere Aviram, sotto il fuoco nemico. Aviram si è aggrappato con le mani all’elicottero, che, sotto tiro, ha volato per 5 km tenendo una bassissima velocità per evitare che cadesse. I tentativi di salvare Arad erano continuati per tutta la notte e per i due giorni successivi alla caduta dell’aereo.

     

    La dolorosa rinuncia

     

    Nella notte stessa un contingente di circa 100 uomini è arrivato a esplorare a fondo tutta la zona della caduta, ma senza successo. Conclude Rabin: “Tutte le informazioni che avevamo ci hanno dato motivo di credere che fosse non più là. La conclusione è stata che non c’era speranza di trovarlo ancora libero, quindi ho concluso che le forze di soccorso non dovevano essere messe più in pericolo per cercarlo. Abbiamo concluso che Arad era in mano dei terroristi libanesi, vivo o no”. I rapporti successivi hanno confermato questa diagnosi. E Arad, purtroppo, è morto in mano dei nemici in Libano o forse in Iran e neppure la sua salma è stata finora recuperata. Ma questo per Tzahal è un conto ancora aperto.

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