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    Perché Hamas rifiuta la tregua

    Le dichiarazioni di Hamas

    La notizia più rilevante, ribadita più volte da fonti diverse nell’ultima giornata, è che Hamas, con il consenso dell’altro gruppo terrorista più importante a Gaza, la Jihad Islamica, si è dichiarato indisponibile a iniziare negoziati con Israele su uno scambio di terroristi detenuti con gli israeliani  rapiti ormai due mesi e mezzo fa, se prima Israele non accetta le “condizioni della resistenza, cessando completamente l’aggressione a Gaza”; solo dopo si potrà parlare di uno scambio, che, viene anticipato, dovrà essere “totale”, il che significa la scarcerazione di tutti i terroristi detenuti, per quanto efferati i loro crimini, in cambio di coloro che sono stati sequestrati il 7 ottobre. Questa risposta negativa ai tentativi israeliano di negoziato che avevano portato l’altro ieri il capo del Mossad David Barnea fino in Norvegia per incontrare il primo ministro del Qatar Mohammedbin Abdulrahman bin Jassim Al-Thani chiude evidentemente per il momento ogni possibilità di tregua, salvo giravolte dei terroristi. C’erano state forti pressioni di una parte dei parenti dei rapiti sul governo per ottenerla, rafforzate dopo la tragica morte dei tre israeliani liberatisi o lasciati andare dai terroristi e uccisi per errore dai militari israeliani, per timore di un agguato.  Interrompere l’offensiva in un momento in cui Israele sente di essere vicino alla tana dei capi terroristi e alcune formazioni di Hamas si sono sfaldate sotto la pressione sarebbe stato un sacrificio molto grave; ma Israele è abituato a fare qualunque cosa per salvare i suoi uomini, compreso lo scambio di oltre mille terroristi liberati dieci anni fa in cambio del solo caporale sequestrato Gilad Shalit. Ma terminare qui del tutto l’operazione vorrebbe dire lasciare alle forze di Hamas, duramente provate ma non distrutte, il dominio di Gaza, con la possibilità di ripetere la strage e di fare altri morti, altre donne violentate, altri rapiti, come hanno pubblicamente promesso di fare: una scelta che nessun governante responsabile potrebbe prendere.

     

    I problemi politici di Israele

    Vale la pena di chiedersi perché Hamas ha fatto questa scelta, così solennemente proclamata da non poter essere facilmente ritirata; quale pensiero strategico l’abbia determinata. È probabile che dietro vi siano due calcoli sui limiti della capacità bellica israeliana. Il primo è interno: in Israele, dopo lo shock della strage e della guerra che ha provocato un momento di unità che il paese non conosceva da tempo, sono riemerse alcune tracce delle vecchie linee di frattura. Non solo nella posizione di alcune delle famiglie dei sequestrati, che naturalmente vivono in uno stato di ansia disperata che giustifica comunque le loro posizioni, ma anche nel campo politico. Benny Gantz, che si era unito al governo di guerra, ha tenuto a far sapere che come ci è entrato ne può anche uscire, ma il suo vice Gideon Sa’ar ha minacciato di non seguirlo se abbandonasse il governo; Yair Lapid ha chiesto le dimissioni immediate di Natanyahu, aggiungendo che le elezioni si possono tenere anche durante una guerra e riecheggiando così le dichiarazioni di Ehud Barak, il quale era stato il regista politico occulto delle manifestazioni antigovernative della prima parte di quest’anno, secondo il quale bisogna espellere in qualunque modo Netanyahu dal governo. Per ora questi sono puri segnali senza conseguenze, dato che il pubblico israeliano è concentrato sull’emergenza e chiaramente non desidera un nuovo teatrino politico. Ma sono segnali di fatica del governo, che probabilmente non sono sfuggiti ai terroristi, come era accaduto del resto rispetto alle manifestazione antigovernative dei mesi scorsi. È probabile che i terroristi le sopravvalutino e sottovalutino l’istinto di sopravvivenza e la combattività del popolo israeliano. Ma in ogni caso ci provano.

     

    Le difficoltà con gli Usa

    Un’altra ragione esterna può essere il tentativo di forzare il dissidio latente fra Israele e gli Stati Uniti. Certamente l’impegno di Biden per aiutare Israele nel momento della crisi è stato importantissimo e ancora oggi i rifornimenti militari americani sono continui e decisivi. Se a presiedere gli Usa fosse stato Obama, le cose sarebbero probabilmente andate in maniera assai diversa. Ma per convinzione ideologica, per pressione della sinistra democratica, per un tradizionale riflesso anti-israeliano del Dipartimento di Stato (il ministero degli esteri Usa), la politica americana è spesso contraddittoria. Biden riconosce che bisogna eliminare Hamas, ma cerca spesso di assegnare termini all’azione israeliana (negli ultimi giorni si è parlato addirittura della fine dell’anno); sa che i terroristi si nascondono in mezzo alla popolazione civile e che i suoi disagi sono colpa loro, ma continua a chiedere a Israele di non colpire i civili, il che è impossibile a meno di rinunciare alla lotta con Hamas; concede aiuti militari, ma ha rifiutato di inviare una partita di armi personali con la paura che vadano ai “coloni” – eppure dovrebbe sapere che se ci fossero state queste armi il pogrom di Hamas sarebbe stato assai più efficacemente contrastato; senza dubbio è a conoscenza del fatto che i rifornimenti “umanitari” vanno più alle organizzazioni terroriste che alla popolazione, ma chiede di aumentarli e ha ottenuto addirittura che non passino solo dall’Egitto ma da un valico con Israele: chi ha mai visto un paese rifornire i nemici con cui è in guerra?

     

    L’ideologia mortale di Hamas e l’impossibilità della deterrenza

    Insomma ci sono contraddizioni fra Israele e Biden, ma anche fra Biden e Biden; e Hamas lavora per approfondirle chiedendo non una tregua provvisoria, ma una fine definitiva della guerra che sanzionerebbe la sua vittoria. E se tale pretesa assurda provocherà più morti e distruzioni fra gli abitanti di Gaza e anche fra i suoi stessi miliziani, non importa: l’ideologia di Hamas richiede di “amare più la morte che la vita”, anzi, di desiderare soprattutto “il martirio”. È un dato da tener presente, perché era stato rimosso dai vertici militari e politici di Israele: con gente del genere (con loro, con Hezbollah, con gli Houti, con l’Iran), la deterrenza non funziona. Solo la distruzione totale delle loro forze li può fermare.

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