Diplomazia e crisi
L’ospedale di Gaza
L’evento dominante della giornata di ieri, dal punto di vista
dell’informazione, è stata un incendio nel cortile o nel parcheggio di un
ospedale di Gaza, con molte vittime. Alle sette di sera, mentre era in corso un
lancio di missili di grandi dimensioni da Gaza verso il nord di Israele, si è
sviluppato una grande fiammata (senza esplosione, a quel che si vede dai
filmati) intorno all’ospedale di Al Ahdi di Gaza City, che ha provocato
numerose vittime, non è chiaro quante esattamente. Hamas ha subito denunciato
Israele come responsabile del “bombardamento” che avrebbe provocato l’incidente,
ma l’esercito israeliano ha smentito di aver bombardato il luogo e ha anche
mostrato il video che mostra come la causa sia stata il fallimento del lancio
di uno dei grandi missili che i terroristi sparavano in quel momento verso la
città di Haifa. Accade molto di frequente, intorno al 5-10% dei casi, che i
razzi tirati dai terroristi siano difettosi e ricadano sul loro stesso
territorio o in mare. Questo è stato evidentemente il caso anche dell’incidente
di ieri. Dato che la versione di Hamas è stata largamente accettata senza
verifiche dai media, soprattutto in Italia, vale la pena di precisare che
l’esercito israeliano è abituato ad assumersi le sue responsabilità, quando per
caso sbaglia e che in tutta la guerra e anche nelle operazioni precedenti, i
bombardamenti dell’aeronautica sono sempre stati mirati a singoli terroristi o
istallazioni militari, mai indiscriminati e mai su luoghi affollati di civili. Che
si creda a Hamas, abituato a mentire spudoratamente e non a Israele, è dunque
il frutto di un pregiudizio purtroppo diffuso.
Le conseguenze
L’incidente dell’ospedale ha suscitato numerose conseguenze. Vi sono
stati gravi assalti all’Ambasciata israeliana di Amman e al Consolato di
Istanbul, manifestazioni violente nelle città arabe di Giudea e Samaria,
l’Autorità Palestinese ha dichiarato un lutto nazionale di tre giorni, è stata
annullata la conferenza che Biden avrebbe dovuto tenere proprio ad Amman con i
leader di Giordania, Egitto e Autorità Palestinese, cortei anti-israeliani sono previsti in tutto il
mondo arabo, in Europa e negli Stati Uniti. In generale aumenta la pressione
già fortissima perché Israele sospenda o almeno depotenzi la guerra con Hamas.
Le visite diplomatiche
Dopo il ministro degli Esteri e vicepremier italiano Taiani, che è stato
il primo leader occidentale ad andare in Israele per mostrare solidarietà, le
visite si moltiplicano. L’altro ieri è andata la presidente della Commissione
Europea Ursula von der Leyen; ieri è toccato al primo ministro tedesco Olaf
Scholz e a quello rumeno Ion-Marcel Ciolacu. Oggi tocca a Biden, preceduto da
una fittissima rete di visite e di riunioni del suo Segretario di Stato
Blinken; nei giorni prossimi sarà il turno di Emmanuel Macron e del primo
ministro britannico Rishi Sunak. Insomma, la diplomazia occidentale si è
fortemente concentrata su Gerusalemme. Si tratta evidentemente di una dimostrazione
di solidarietà, che in certi casi come gli Usa e la Gran Bretagna è diventata
anche molto concreta, con il rifornimento di armi e l’avvicinamento di potenti
mezzi navali, che dovrebbero rendere più difficile l’intervento nella guerra di
Hezbollah e del grande burattinaio del terrorismo in Medio Oriente e protettore
di Hamas, la Repubblica Islamica dell’Iran. Israele ne è certamente molto grato.
Le pressioni
Ma in questo attivismo diplomatico vi è anche un forte rischio. Secondo
una politica consolidata, gli occidentali condividono l’idea che nei rapporti
internazionali l’uso della forza debba essere il più moderato possibile e che
le armi debbano sempre cedere il passo alla diplomazia, appena possibile.
Sembra un’idea ragionevole, anzi virtuosa, ma essa non considera gli abissi di
odio e di violenza del terrorismo anti-israeliano. La conseguenza di questa
impostazione sarebbe quella di impedire a Israele di portare fino in fondo la
guerra a Hamas, innanzitutto rompendo l’assedio a Gaza e permettendo a Egitto e
Turchia di portare aiuti che finirebbero innanzitutto alle truppe terroriste,
poi impedendo l’azione di terra che è necessaria per spiantare davvero le
organizzazioni del terrore a Gaza, e infine limitando i bombardamenti aerei e
proclamando un cessate il fuoco immediato, come ha chiesto anche ieri il
segretario dell’Onu Gutierrez, in visita anche lui in Medio Oriente, ma in
Egitto, non in Israele. Questa pressione era già in atto prima dell’incidente
dell’ospedale: vi sono resoconti di una lunghissima riunione fra Blinken e il
gabinetto di guerra israeliano in cui è stato discusso per ore un documento presentato
dal Segretario di Stato che imponeva la riapertura del valico di Gaza e
sull’ingresso degli aiuti in cui il governo israeliano ha cercato di assicurarsi
almeno garanzie che non sarebbero passati materiali militari. Ora è chiaro che
Biden cercherà di probabilmente di far passare proprio un cessate il fuoco.
Bisogna sapere però che se l’operazione contro i terroristi non venisse portata
fino in fondo, sarebbe una gravissima sconfitta per Israele, per l’Occidente e
per la pace che preluderebbe entro breve termine a nuovi grandi atti di
terrorismo e a nuove guerre. Ogni concessione alle organizzazioni terroriste
rafforza la loro strategia di morte.
Le operazioni
Nel frattempo ieri e oggi le operazioni dell’esercito israeliano
proseguono. Vi sono stati scambi al confine nord con Hezbollah, con una
tendenza alla crescita dell’intensità dei combattimenti. A Gaza l’aviazione
israeliana ha eliminato alcuni importanti capi terroristi, fra cui vale la pena
di citare uno dei loro più importanti comandanti militari, Amin Nofal,
probabilmente il numero tre o quattro dell’organizzazione militare di Hamas.