L’ondata
L’attentato di ieri sera a Bnei Barak (cinque israeliani assassinati) è il terzo in una settimana, dopo quello di Beer Sheva il 22 marzo (quattro uccisi) e quello di Hedera (2 morti). Oggi c’è il sospetto di un nuovo attacco a Gerusalemme, vicino al mercato di Mahane Yehuda. Ormai non si può più parlare di attacchi isolati, è chiaro che è in corso un’ondata terrorista, che purtroppo rischia di continuare, anche grazie all’effetto di imitazione che spesso questi crimini inducono. Ma anche al fatto che tutte le fazioni palestiniste li hanno approvati e festeggiati. A Gaza, ma anche a Jenin da dove veniva uno degli ultimi attentatori, a Tulkarem e altrove, nei quartieri arabi vi sono stati danze, canti, offerte di dolciumi ai passanti.
Le caratteristiche comuni
Tutti i tre gli attentati sono avvenuti entro i limiti storici di Israele, quelli stabiliti nel ‘48; non nei territori che i nemici di Israele definiscono occupati, cioè la Giudea e Samaria e Gerusalemme vecchia. Tutti sono stati realizzati con la partecipazione di arabi israeliani. Due su tre hanno comportato l’uso delle armi da fuoco, che i palestinisti negli ultimi anni avevano invece usato poco, per discostarsi dall’immagine del terrorismo e lanciare quella della “resistenza popolare”. Tutti però sono stati compiuti da terroristi singoli con armamenti individuali, senza una grande organizzazione attiva, a differenza degli attentati con le cinture esplosive di vent’anni fa. Due su tre almeno sono stati rivendicati dall’Isis, che non aveva avuto finora un ruolo rilevante nel terrorismo palestinista e che sta evidentemente cercando di installarsi in Israele.
Le preoccupazioni
Queste caratteristiche comuni inducono gravi preoccupazioni, anche al di là del lutto e della tragedia delle vite stroncate. La presenza di terroristi arabi con cittadinanza israeliana fa pensare che gli episodi di violenza di massa, veri e propri pogrom omicidi, di cui si erano resi responsabili gruppi di arabi israeliani a Lod, Acco e in altre località durante l’ultima operazione a Gaza, non siano stati episodi isolati, ma che ci sia ancora il rischio di una sollevazione violenta di parti della minoranza araba in Israele e il tentativo dei palestinisti di innescarla. L’arrivo dell’Isis, che certamente ha quadri militari ed esperienza di guerriglia, è un’altra preoccupazione. E colpisce il fatto che i tre episodi non siano stati prevenuti dai servizi di sicurezza (Shabak e polizia) israeliani, che evidentemente non hanno più le antenne di una volta e hanno perso concentrazione sul terrorismo occupandosi molto di compiti estranei come la prevenzione del Covid o addirittura di lotta politica contro Netanyahu e i “coloni estremisti”. Vi è stata nell’esercito un’attenzione legale meticolosa a prevenire ogni abuso dell’autodifesa, che ha forse fatto abbassare la guardia. Si è forse creduto che la presenza al governo di un partito arabo avrebbe frenato il terrorismo e questo non è accaduto. Zone importanti del paese (il Negev, parti della Galilea, parti della “zona C” della Giudea e Samaria, sotto amministrazione israeliana secondo gli accordi di Oslo) sono stati lasciati all’iniziativa palestinista, spesso appoggiata praticamente dalla diplomazia europea.
Le ragioni dell’ondata terroristica
I palestinisti non hanno mai rinunciato al terrorismo e non hanno mai riconosciuto immunità neppure all’Israele nei limiti precedenti al ‘67. Dunque per loro il terrorismo è normale, anzi è un compito eroico che premiano con onori e denaro. Ma perché colpire proprio ora? La ragione principale è il tentativo di riguadagnare l’attenzione del mondo. Fra gli sviluppi degli accordi di Abramo e la guerra in Ucraina la questione palestinese è stata ridimensionata a quello che è: un problema secondario nella politica internazionale che coinvolge un numero abbastanza piccolo di persone e un territorio limitato. Questo è intollerabile per i palestinisti, abituati a essere considerati la fonte di ogni problema e di pretendere perciò l’appoggio del mondo. Il terrorismo serve soprattutto a far parlare di sé. La seconda ragione, che si sovrappone alla prima, è che Israele oggi gode i dividendi della politica di Netanyahu, continua a stringere le proprie relazioni con i vicini arabi, guida la resistenza all’imperialismo iraniano, ha un notevole successo internazionale, politico oltre che economico e tecnologico. E questo rende furiosi i palestinisti che vorrebbero solo distruggerlo e si vedono traditi dai loro fratelli arabi. Vi è poi il finanziamento e l’appoggio iraniano a ogni attività terrosrista contro Israele. Infine vi è la debolezza e la confusione di un governo che non riesce ad applicare politiche univoche anche nel campo essenziale della sicurezza.
Che cosa attendersi ora
Dobbiamo sperare che i servizi di sicurezza israeliani riescano a prevenire nuovi attentati. Ma non sarà facile. Nel settore arabo vi è abbondanza di armi da fuoco (oltre naturalmente ai mezzi di attacco universalmente diffusi, coltelli, sassi, bottiglie Molotov, automobili con cui investire i nemici). Vi è anche molta criminalità non abbastanza contrastata, e un’abitudine diffusa all’illegalità, anch’essa spesso tollerata. Gli obiettivi prescelti da questa ondata terrorista non sono militari, ma civili e dunque sparsi dappertutto. Le modalità operative sono semplici ed efficaci: basta sparare nel mucchio. Certamente è necessario far ripartire delle politiche di sicurezza efficaci, individuando di nuovo le fonti di pericolo e lavorando per isolarle.