Le trattative
Seguendo il complesso percorso della legge israeliana, Benjamin Netanyahu ha annunciato ieri notte al presidente Herzog di essere riuscito a formare la maggioranza di governo. Ora gli resta una settimana per presentarne composizione e accordi alla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano. Dopo la fiducia, finalmente, dopo quattro anni, Israele avrà un governo con una maggioranza politica coerente. Anche se l’indicazione degli elettori era molto chiara, con una maggioranza di 64 seggi su 120 per il centrodestra impegnato a governare con Netanyahu, il percorso che ha portato al nuovo governo è stato piuttosto complicato, con trattative molto dure fra il Likud e i partiti minori, che avanzavano pretese molto onerose sia in termini di programma che di posti di governo. La destra sionista in particolare ha richiesto di avere la responsabilità politica degli apparati di polizia e dell’amministrazione di Giudea e Samaria. Ma alla fine un equilibrio si è trovato, grazie soprattutto alla leadership di Netanyahu: nel sistema politico israeliano il primo ministro ha poteri notevoli e non c’è dubbio che Netanyahu sappia e voglia esercitarli. Come ha anche ribadito Biden, la garanzia per gli alleati è lui.
Le critiche
Già prima della sua formazione il nuovo governo è stato oggetto a durissimi attacchi sia all’estero che in Israele. Gli esponenti dei partiti che avevano formato il precedente eterogeneo governo collassato a giugno, in particolare Yair Lapid, Benny Gantz, Avigdor Lieberman, hanno annunciato non solo ostruzionismo parlamentare, ma anche manifestazioni di piazza e chiesto alle autorità locali di rifiutare le disposizioni del nuovo governo. Da parte dell’Unione Europea e dell’amministrazione americana vi sono stati ammonimenti solenni e minacce di boicottaggio. Questa volta l’oggetto principale della polemica non è tanto Netanyahu, anche se proprio contro di lui si era formato negli ultimi anni l’opposizione di blocco che aveva impedito negli ultimi anni di costituire un governo secondo le indicazioni politiche costanti dell’elettorato israeliano, che da ormai da tre decenni presenta una chiara maggioranza di centrodestra. L’opposizione si concentra invece questa volta soprattutto contro gli alleati che hanno reso possibile questo governo, in particolare contro i due partiti religiosi, i quali chiedono, come hanno sempre fatto, che gli israeliani decisi a vivere secondo le norme e i costumi tradizionali siano messi in condizioni di farlo; e soprattutto contro il raggruppamento sionista religioso, che vuole una lotta più energica contro il terrorismo, difende le comunità ebraiche costruite oltre la “linea verde” (i limiti armistiziali del ‘49) e insiste nel bloccare l’appropriazione illegale da parte di gruppi arabi e beduini di terreno in Giudea e Samaria.
Ben Gvir
Nel mirino è soprattutto Itamar Ben Gvir, 46 anni leader del movimento sionista religioso Otzma Yehudit (“Forza ebraica”), che insieme ai “Sionisti religiosi” guidati da Bezalel Smotrich ha ottenuto il successo più significativo delle ultime elezioni, passando da sei a quattordici seggi (su 120) e consentendo così la nuova maggioranza. Ben Gvir è avvocato, impegnato soprattutto nella difesa degli abitanti dei villaggi oltre la linea verde ed è accusato dai suoi avversari di estremismo anti-arabo e “fascismo” (un termine che ha pochissimo senso dentro il contesto israeliano). Ma è molto popolare soprattutto fra i giovani per il coraggio delle sue prese di posizione e la sua presenza personale nei luoghi e nei momenti di conflitto. Ha ottenuto il ministero della sicurezza e una legge che permetterà al suo ministero di indirizzare le scelte della polizia rispetto all’ordine pubblico.
Due visioni
Invece di concentrarsi sulla personalità di Ben Gvir, Smotrich e Netanyahu, per capire la situazione politica israeliana bisogna capire che fra maggioranza e opposizione vi sono due visioni politiche molto differenti. La minoranza di sinistra propone una visione simile alla sinistra europea e americana: uno stato laico, multinazionale, pacifico, in cui la religione sia solo un fatto privato, che accolga facilmente gli immigrati quale che sia la loro cultura e nazionalità e sia disposto a favorire la costituzione di uno stato palestinese in Giudea e Samaria. La destra invece, con accenti diversi, vuole non solo uno stato degli ebrei ma uno stato ebraico, che garantisca una continuità nazionale e religiosa, pur rispettando i diritti individuali senza discriminare nessuno per la sua appartenenza etnica, sociale, religiosa o per l’orientamento sessuale; pensa che il progetto palestinista non sia focalizzato sulla costituzione di uno stato palestinese ma sulla distruzione di quello ebraico; protegge la popolazione ebraica insediata nelle comunità oltre la linea verde, crede che la pace possa venire soprattutto dagli accordi con i principali stati arabi, propone una lotta aggressiva ai nemici di Israele, siano stati o gruppi terroristi, diffida dell’attivismo di una magistratura quasi tutta allineata con la prima posizione.
Il governo attuale esprime questa seconda visione, che è quella scelta largamente dall’elettorato. Anche nella minoranza vi sono forze che condividono buona parte di questa visione, per lo più moderando l’aspetto religioso; ma esse hanno preferito allearsi nell’ultima legislatura con la sinistra e anche con un partito arabo espressione della Fratellanza Musulmana, pur di sbarrare la strada al leader naturale della destra, che è ancora molto chiaramente Netanyahu. In democrazia di fronte a contrasti così netti la scelta spetta all’elettorato, che si è pronunciata con chiarezza. Il peso determinante di Ben Gvir e Smotrich deriva dalle scelte di chi in passato era stato eletto su posizioni di destra e poi si era allineato nello schieramento opposto (Bennett, Sa’ar, Liberman, in parte anche Gantz). Gli elettori hanno scelto i partiti che davano loro garanzie di un’energica difesa dello stato ebraico e il governo attuale risponde a questa scelta. Ogni possibile soluzione intermedia è stata bruciata dalla campagna contro Netanyahu. E questo è forse un bene, perché Israele avrà una politica chiara, senza essere paralizzato dai conflitti interni al governo, come spesso è accaduto in passato.