La riforma della giustizia
Lo Stato di Israele è entrato in una crisi politico-istituzionale grave, di cui non si vede al momento la via d’uscita. Questa crisi ha una premessa, la scelta della nuova maggioranza di governo di realizzare le promesse elettorali di un riequilibrio fra i poteri dello stato. Una decina di giorni fa il ministro della giustizia Yariv Levin ha annunciato un progetto di legge per limitare a una maggioranza qualificata la possibilità della Corte Suprema di annullare le leggi approvate dalla Knesset (il Parlamento israeliano), per permettere a questo con una nuova votazione di superare eventuali abrogazioni, per rivedere i modi di nomina dei giudici eliminando l’attuale sistema, che è molto simile a una cooptazione. Infine essa richiede alla Corte, per l’abrogazione di atti parlamentari, di non far ricorso a ragioni generiche come l’”irragionevolezza” ma di mostrare che essi violino qualcuna delle “leggi fondamentali” che in parte svolgono in Israele il ruolo di una costituzione che non è mai stata stabilita.
La risposta della Corte
La presidente della Corte, Esther Hayut, ha reagito a questo progetto con un durissimo discorso televisivo, in cui accusava la riforma Levin di “non essere un piano per sistemare i problemi del sistema della giustizia, ma per distruggerlo”, usando toni molto simili a quelli di una grande manifestazione antigovernativa che si è svolta sabato sera a Tel Aviv. Ma la risposta più dura è stata in una sentenza emessa lunedì dalla Corte, con una larga maggioranza. In questa decisione, che rispondeva alla petizione di una associazione “per il buongoverno”, La Corte ha dichiarato che il ministro della Sanità e dell’Interno Aryeh Deri non può mantenere questi posti ministeriali.
Il caso Deri
La ragione è che Deri, diventando ministro, non avrebbe mantenuto l’impegno a non ricoprire ruoli pubblici e a dimettersi dalla Knesset preso durante la scorsa legislatura, che aveva preso due anni fa per chiudere un procedimento per elusione fiscale cui era stato sottoposto per aver intestato al fratello i profitti di una vendita immobiliare. Deri in effetti si era dimesso allora dalla Knesset, ma poi era stato rieletto nelle ultime votazioni, senza che la sua candidatura fosse bocciata dalla Commissione elettorale centrale, che ha competenza su questi problemi. Nel diritto israeliano esiste una norma che proibisce la nomina a ministro di chi sia stato condannato per reati “disonorevoli” (Kalon). Il tribunale del procedimento fiscale non aveva sentenziato se la sua colpa lo fosse, rinviando la decisione alla Commissione. Fra le prime leggi del nuovo parlamento se n’è approvata una che stabilisce che per reati fiscali come quelli contestati a Deri non vi è “disonore” e quindi non c’è bisogno di ricorrere alla Commissione. Si è resa dunque esplicita una volontà politica e legislativa della Knesset di ammettere Deri fra i ministri. La Corte, richiamando anche dei precedenti di Deri (condannato vent’anni fa per frode e abuso di potere) ha sentenziato che la nomina è “gravemente irragionevole” e ha imposto che essa venga annullata, aprendo un conflitto evidente con la maggioranza di governo.
Le conseguenze politiche
In effetti Deri è il leader incontrastato di Shaas, il partito religioso sefardita che è il quarto alla Knesset con 11 seggi su 120. E’ dunque necessario alla maggioranza di Netanyahu, che è di 64 seggi. Deri ha anche dichiarato che considera la sentenza della Corte ingiusta e persecutoria nei suoi confronti, affermando di non volersi dimettere. Qualcuno dei suoi sostenitori ha dichiarato che se Deri non è più ministro, non vi sarà più governo. La legge israeliana dà al primo ministro la possibilità di licenziare i ministri, ma Netanyahu non vuole certo farlo contro la volontà di Deri, per trovarsi così in minoranza. D’altro canto non può rifiutarsi di farlo, perché in questo caso sarebbe accusato di “disprezzo della corte” che nel regime giuridico israeliano è un reato, e anche perché nel paese si aprirebbe un grave rischio di anarchia. Dopo la sentenza però Netanyahu è andato subito a casa di Deri a porgergli la sua solidarietà, e nello stesso senso si sono espressi i più autorevoli esponenti della maggioranza.
Le soluzioni possibili
Escluso il rifiuto di obbedire alla sentenza, sono emerse diverse possibilità. Una è quella di dare a Deri il titolo di “primo ministro alternativo” (come Lapid era per Bennett nell’ultima legislatura o Gantz per Netanyahu due anni fa), perché esso sta fuori dalla legge sul “disonore”. Ma è una via giuridicamente complessa, che richiederebbe daccapo la nomina di un nuovo governo. E anche politicamente è costosa, perché Netanyahu si è impegnato in campagna elettorale a non creare di nuovo una duplicità a capo del governo. La seconda è quella di nominare Deri presidente della Knesset, conservando il controllo di Shaas sui ministeri. La terza è quella di approvare una norma che escluda gli effetti della sentenza, il che non sarà semplice. Anche in questi casi però la Corte potrebbe essere chiamata a intervenire ed esercitare di nuovo la sua autorità sul cuore della politica, la costituzione del governo. Non si sa che cosa Netanyahu deciderà. Ma certamente la prova di forza della Corte Suprema deve averlo convinto che è urgente raddrizzare l’equilibrio fra le scelte popolari (e il parlamento che ne deriva) e una classe giudiziaria che non si basa sulla legittimazione democratica ma sulla cooptazione e pretende di avere l’ultima parola su tutti i problemi politici. E’ molto probabile che lo scontro fra politica e giudici (che non è un caso unico di Israele, c’è anche in paesi come l’Italia) non finisca qui.