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    ISRAELE

    Liberare gli ostaggi, ma a quale prezzo? Il dibattito che lacera la società israeliana

    Ci è stato insegnato, sin dalla prima infanzia, che la vita non è altro che un bivio che ci costringe a scegliere sempre tra giusto e sbagliato. Tra bene e male. Tra corretto ed errato. Tra sacro e profano. Vero, ma solo in parte. Più passa il tempo e più mi rendo conto che, talvolta, la vita ci pone di fronte a un bivio nel quale dobbiamo assolutamente scegliere tra giusto e giusto. O meglio, tra più giusto e meno giusto. Oppure tra sbagliato e sbagliato. O meglio, tra più sbagliato e meno sbagliato. Ecco, è dal 7 ottobre che Israele viaggia tra i mondi non assolutistici del giusto e del giusto, nonché dello sbagliato e dello sbagliato. È da oltre un anno e quattro mesi che la guerra contro il terrorismo islamico mette a dura prova la capacità dello Stato ebraico di definire cosa sia favorevole e cosa invece sia sfavorevole alla sua stessa esistenza e sopravvivenza. Così, quando sono iniziati i negoziati a Doha a favore di una tregua a Gaza in cambio del rilascio di parte degli ostaggi, mi sono domandato per la prima volta cosa fosse più giusto per il bene d’Israele e di chi ci abita: sconfiggere definitamente il terrorismo, o riportare a casa gli innocenti tenuti in cattività? Un quesito che non ha tormentato solo me, ma l’intera società israeliana, ormai lacerata dal desiderio viscerale di riabbracciare i propri cari e, in egual modo, dal bisogno vitale di non coesistere più con un entità che predica la sua distruzione. La risposta, in realtà, è sempre stata una, chiara e scontata a tutti. Gli ostaggi sono la priorità. Riportarli a casa è la priorità assoluta d’Israele. Il quesito fonte di tanto tomento, infatti, è un altro: a quale prezzo? D’altronde, è un dato di fatto che gli ostaggi vadano riportati a casa. Non esiste alcun “se” a riguardo. La domanda è, come? In cambio di cosa? Un accordo con il diavolo che prevede l’uscita dell’IDF dalla striscia di Gaza, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che prevede l’annullamento di gran parte dei traguardi militari israeliani raggiunti a Gaza, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che in qualche modo vanifica il sacrificio dei giovani soldati caduti in combattimento contro i terroristi, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che prevede il rilascio immediato di migliaia di terroristi palestinesi dalle carceri israeliane, pronti e motivati a tornare ad uccidere in nome di Allah, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che non prevede la liberazione di tutti gli ostaggi, ma solo una piccola parte di loro, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che di fatto lascia il diavolo alla leadership di Gaza, è un buon accordo? Secondo l’antico principio ebraico che recita: “Chi salva una vita, salva un mondo intero”, la riposta è probabilmente affermativa. Sì, qualunque accordo che riporti indietro anche un solo ostaggio innocente, è un buon accordo. Tuttavia, ancora traumatizzati dalla strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, gli israeliani non si accontentano più di antichi principi ebraici e pretendono oggi risposte concrete ai loro tanti quesiti assolutamente fondati. Così, un momento di indiscussa gioia, diventa anche un momento di preoccupazione, di paura, di rabbia, di terrore. Se un tempo, infatti, pensavo che sentimenti tanto contrapposti non potessero in alcun modo coesistere tra loro in armonia, oggi so con certezza che un cuore può tranquillamente contenere la stessa quantità di felicità e di tristezza contemporaneamente, senza collassare. Che un uomo può essere al contempo sia ottimista che pessimista, senza dover necessariamente scegliere tra il suo lato più fiducioso e quello più prudente. Oggi gli israeliani sanno che un accordo con Hamas, è un accordo sbagliato a prescindere. Non si illudono più di dover scegliere tra giusto e sbagliato. Sanno di dover scegliere tra sbagliato e sbagliato, ma si domandano comunque quale delle due opzioni sia meno sbagliata. Lo so, pongo tante domande e non fornisco alcuna riposta. Me ne rammarico. Tuttavia, non riuscendo a formulare un concetto più lucido di quanto io abbia già fatto, prendo in prestito le parole del collega giornalista israeliano Yair Sherki, che nel 2015 ha perso tragicamente il fratello Shalom in un attacco terroristico. Quando la scorsa notte Sherki ha scoperto che il terrorista palestinese responsabile dell’uccisione del fratello, sarebbe stato rilasciando in cambio delle tre ragazze ostaggio Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher, ha reagito dicendo: “Il pensiero che l’assassino di mio fratello possa respirare aria fresca e mangiarsi un kebab in Turchia, è per me incomprensibile. So che c’è un’ingiustizia intrinseca in tutta questa situazione, ma il fatto che il suo periodo di pena sia stato ridotto a tal punto da non fargli concludere nemmeno un decennio in carcere, è per me insopportabile. Nonostante ciò, c’è un fattore che non posso proprio ignorare. Mio fratello è morto, nulla lo riporterà indietro. Romi, invece, è ancora viva. La cosa giusta da fare è riportarla a casa”. Così, di fatto, è accaduto. Romi Gonen, ragazza simbolo di questa guerra grazie anche ai racconti della sua straordinaria mamma Meirav, che nell’ultimo anno ha girato il globo in lungo e in largo per sensibilizzare l’opinione pubblica circa la causa degli ostaggi, è stata liberata dopo 471 giorni di cattività nei tunnel del terrore di Hamas. Se un attimo prima del suo rilascio la popolazione era ancora spaccata in due, incapace di decidere se l’accordo fosse giusto o sbagliato, nessun israeliano è invece riuscito a trattenere le lacrime nell’istante in cui Romi ha riabbracciato la sua mamma Meirav. Nessuno. Probabilmente gli animi torneranno presto a rinfervorarsi e il trauma represso della strage prenderà di nuovo il sopravvento, ma nessuno dimenticherà l’istante indescrivibile in cui madre e figlia di si sono ricongiunte. Un istante che ha dato senso a tutto ciò che fino ad un attimo prima era ancora in preda al caos. Personalmente, esattamente un mese fa, anch’io ho avuto l’onore di conoscere Meirav Gonen. Era venuta a visitare la redazione del giornale per cui lavoro a Gerusalemme, e si era fermata a parlare della guerra in corso con me e con i miei colleghi per oltre un’ora. Ricordo di non aver avuto il coraggio di porle una domanda troppo brutale, troppo difficile da formulare a parole e pronunciare a voce alta. Così ho chiesto ad una collega più spavalda e sfacciata di me, di porgliela al posto mio. “Meirav, dopo tutto questo tempo, credi davvero che Romi sia ancora viva?”, le ha dunque domandato lei. “Certo che sì”, ha risposto Meirav senza esitare. “Una mamma sa se sua figlia è viva oppure no, e io sono assolutamente convinta che lei lo sia. Romi è viva, la sento dentro il mio utero che scalcia e vuole uscire fuori. E come so che la mia bambina è ancora viva, so anche che presto, prestissimo la riabbraccerò. Non ne ho alcun dubbio”. Aveva ragione Meirav. Il suo istinto di mamma sapeva già ciò che i massimi esperti di geopolitica ancora ignoravano. Romi è stata liberata. Insieme a lei, anche Emily e Doron. Ci sarà tempo per discutere le tante conseguenze di questo accordo. Per ora non ci resta altro che dire: bentornate a casa ragazze. Vi stavamo aspettando.

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