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    Le ragioni del conflitto in Israele: le analisi di Glick e Leibovitz

    Riprende il
    conflitto politico

    Il periodo
    di sospensione dell’attività politica dovuto alle festività di Pesach e alle
    giornate del ricordo della Shoah, dei caduti e poi dell’anniversario
    dell’indipendenza è finito. Il 30 aprile riprendono le sessioni parlamentari,
    anche se con un calendario prevalentemente dedicato alle leggi di bilancio che
    devono essere approvate entro il 28 maggio; se non lo fossero, la legge prevede
    lo scioglimento della Knesset e nuove elezioni. Le manifestazioni di protesta
    in Israele però proseguono e sono ormai arrivate alla sedicesima settimana:
    quasi la stessa durata del sesto governo Netanyahu, che, formatosi dopo le
    elezioni politiche tenute il 1 novembre, ha ottenuto la fiducia della Knesset
    il 29 dicembre, meno di cinque mesi fa.

     

    Una
    scissione profonda

    Questa
    coincidenza mostra che le manifestazioni non dipendono dai provvedimenti
    adottati dal governo né tanto meno dalle leggi approvate dalla Knesset, in
    particolare quelle riguardanti la riforma giudiziaria cui si attribuisce
    normalmente la protesta. Lo dimostra ancora più chiaramente il fatto che la
    decisione di Netanyahu di non forzare l’approvazione di queste leggi alla fine
    della scorsa sessione parlamentare, come poteva facilmente fare, accettando
    invece un tavolo di trattative con l’opposizione che ormai procede da diverse
    settimane con la sospensione dell’iter parlamentare della riforma, non ha
    affatto bloccato le manifestazioni, che anzi si sono estese fino a contestare
    qua e là le celebrazioni delle giornate del ricordo, che dovrebbero essere
    patrimonio comune del Paese. Se ce n’era ancora bisogno si è visto così che la
    scissione politica in Israele è profonda e va certamente al di là della
    composizione del governo e della persona stessa di Netanyahu.

     

    Rivolta
    della classe di governo

    Al di là
    delle manifestazioni di piazza, quel che colpisce è che in un’importante
    articolo (https://carolineglick.com/the-ruling-class-must-regain-its-senses/)
    la giornalista israeliana Caroline Glick chiama “rivolta della classe di
    governo”:  “il governatore della Banca
    d’Israele Amir Yaron, gli ex primi ministri Ehud Olmert e Ehud Barak, l’ex
    ministro degli esteri Tzipi Livni, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon,
    l’attuale leader dell’opposizione Yair Lapid e dozzine di generali in pensione”
    ex dirigenti della polizia e dei servizi segreti, che fanno infiammate
    dichiarazioni sui giornali, tengono conferenze all’estero contro il governo e
    l’economia israeliana. Secondo Glick queste prese di posizione si incontrano
    con l’atteggiamento ormai tradizionale delle amministrazioni americane che
    dividono gli israeliani in “buoni e cattivi” cioè “pro-pace” e “contro la
    pace”.

     

    Stato degli
    ebrei o stato ebraico?

    Per capire
    meglio questa paradossale contrapposizione, è utile leggere un altro importante
    articolo di un altro giornalista israeliano, Liel Leibovitz (https://www.tabletmag.com/sections/israel-middle-east/articles/zionisms-moment-decision).
    Per Leibovitz quella in corso “è una lotta che non finirà presto, o con
    qualcosa che assomigli lontanamente a un compromesso, perché si tratta di una
    domanda così centrale a cui persino i coraggiosi e preveggenti fondatori del Paese
    hanno evitato di rispondere. Gli israeliani devono ora decidere se vogliono uno
    stato per gli ebrei o uno stato ebraico”. Questa è una contrapposizione che
    nasce nel movimento sionista con Asher Zvi Ginsberg, meglio conosciuto come
    Ahad Ha’am, (“uno del popolo”) il quale alle origini del movimento sionista
    sosteneva che non bastava creare uno stato in cui gli ebrei fossero sicuri in
    quanto maggioranza, ma innanzitutto una cultura ebraica creativa e autonoma.
    Ora questa dialettica ha cambiato senso, spiega Leibovitz, perché quelli che
    scelgono la prima posizione vogliono soprattutto che Israele sia “uno stato
    normale, proprio come gli Stati Uniti o la Francia o la Germania [e che non sia
    invece] conquistato da quei fanatici con le loro barbe e la loro religione”, come
    gli ha detto una manifestante.

     

    La
    normalità e le due Israele

    Scrive
    ancora Leibovitz: “Questa insistenza sulla normalità, sull’essere uno stato
    come un altro, è al centro della teoria del Secondo Israele, resa popolare
    dall’accademico e giornalista Avishai Ben Haim [secondo cui] la lotta politica
    determinante di Israele […] non è tra sinistra o destra, e nemmeno tra
    religiosi e secolari, ma tra rappresentanti del Primo e del Secondo Israele.
    Nell’analisi di Ben Haim, il Primo Israele comprende le élite tradizionali del
    paese, l’ambiente in gran parte socialista e ashkenazita che ha presieduto la
    nascita di Israele, mentre il Secondo Israele comprende gli ebrei mizrahi e la
    sua crescente popolazione ortodossa. Mentre i due Israele possono coesistere a disagio
    per quanto tempo all’interno dello stesso corpo politico, sono in realtà entità
    fondamentalmente diverse e opposte. Il primo Israele misura il successo in base
    a quanto somiglia all’Occidente […]. Il Secondo Israele si rende conto di
    essere un prodotto dell’Oriente, il che significa rafforzare la famiglia, la
    tradizione e la nazione. Per il Primo Israele, i valori ebraici sono
    tollerabili solo finché non interferiscono con i dettami del cosmopolitismo;
    per il Secondo Israele, la democrazia è solo un altro nome per il tipo di
    compromessi che l’ebraismo, nella sua versione più moderata e aperta, genera
    naturalmente e con facilità. Per il Primo Israele, la lunga eredità del
    giudaismo è solo un’aggiunta storicamente contingente ai valori e alle pratiche
    di altri paesi occidentali, come il moderno tecno-capitalismo e le applicazioni
    dell’elitarismo democratico. Per la Seconda Israele è vero il contrario”.

     

    Il vero
    problema

    La teoria
    di Ben Haim e Leibovitz è certamente discutibile perché è una radicale semplificazione
    della realtà di Israele, che è da sempre molto sfaccettata e piena di
    sfumature. È chiaro per esempio che le posizioni dei charedim e dei sionisti
    religiosi non coincidono, per non parlare del Likud; e così quelle dei generali
    del partito di Gantz e degli estremisti di sinistra di Meretz. Ma certamente
    essa coglie una radice della durezza del conflitto attuale, spiega per esempio
    perché nella protesta si parli di difesa della democrazia, anche se la
    maggioranza di governo ha finora rispettato tutte le regole democratiche, non
    represso il dissenso e ripetutamente assicurato di non aver alcuna intenzione
    di cambiare. Però questo conflitto non avviene nel vuoto. Le manovre iraniane
    per coordinare un attacco a Israele da parte di tutti i suoi nemici sono sempre
    più minacciose e sostenute dalla convinzione che il dibattito interno alla
    società israeliana sia la vigilia della sua dissoluzione. Certamente è arrivato
    il momento che le due Israele capiscano di essere reciprocamente necessarie per
    la sopravvivenza collettiva e trovino il modo di gestire il loro conflitto
    senza lasciarlo radicalizzare.

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