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    Le difficoltà dell’operazione di terra e il dissenso con Biden

    L’incubo delle gallerie

    La perdita di dieci soldati annunciata ieri, un numero molto
    alto rispetto alla media dei due mesi di guerra, mostra le difficoltà della
    fase attuale della guerra. Israele controlla direttamente la superficie di un
    po’ meno della metà di Gaza, non ha problemi a spingere le truppe dove ritiene
    necessario, ma il possesso della superficie non si è esteso al livello
    sotterraneo, nella rete di gallerie che costituiscono la base dei terroristi,
    dove sono nascoste le rampe di lancio dei missili che ancora arrivano sul
    territorio israeliano, dove sono accumulate le armi e i miliziani, dove si
    rifugiano i capi terroristi e sono tenuti prigionieri i rapiti. La morte dei
    soldati israeliani è avvenuta tentando di penetrare in una di queste gallerie,
    dove si stimava potessero esservi alcune delle persone sequestrate. Ma come si
    sapeva i tunnel sono imbottiti di bombe trappola, predisposti per gli agguati
    con feritoie e barriere, progettati insomma per uccidere chi provi a
    conquistarli. Le truppe israeliane usano come aiuto dei cani d’assalto, dei
    droni che però sono difficili da guidare perché le onde radio hanno portata
    limitata sottoterra, delle armi particolari. Ma tutto questo non impedisce che
    le gallerie possano essere fatte saltare quando viene rilevata la loro presenza,
    o che altre trappole esigano un costo pesantissimo. Anche tre giorni fa due
    altri soldati sono periti cercando di recuperare i corpi di due rapiti.
     

    Combattere con un braccio legato

    Il problema è che l’esercito israeliano non può usare tutte
    le sue armi, per esempio i bombardamenti pesanti, per non colpire i rapiti e
    anche per evitare di coinvolgere la popolazione che Hamas usa come schermo. Per
    esempio si è saputo che negli ultimi giorni 118 missili sono partiti dalla
    “zona umanitaria” a sudovest della Striscia, l’area cioè che Israele ha
    destinato alla sicurezza degli abitanti di Gaza che hanno dovuto sfollare dalle
    loro case. Essa è ora una grande e affollata tendopoli, che dovrebbe essere un
    rifugio per la popolazione civile. Sparare da lì significa usare questa gente
    come scudi umani, impedendo a Israele ogni risposta. Questo comportamento
    dell’esercito israeliano che deve “combattere con un braccio legato dietro la
    schiena” è così controllato da avere ricevuto riconoscimenti dalla stessa
    amministrazione americana, che ha fra i propri obiettivi espliciti la tutela
    della popolazione civile.
     

    Le dichiarazioni di Biden

    Questo riconoscimento è importante per Israele anche al di
    là delle scelte etiche autonome dell’esercito, davvero inedite per qualunque
    guerra. Israele ha infatti bisogno dei rifornimenti di armi e munizioni
    americane, della deterrenza rispetto all’Iran garantita dalla flotta Usa, del
    sostegno in quelle istanze internazionali, prima di tutto nel consiglio di
    sicurezza dell’Onu, dove vige una maggioranza precostituita anti-israeliana.
    Questa dipendenza è nota a tutti, al campo terrorista che condanna e minaccia
    gli Usa, bombardando anche le sue basi in Siria e Iraq; agli israeliani che ne
    tengono conto fino al punto di aver ammesso diverse volte il segretario di
    Stato americano Blinken alle riunioni del gabinetto di guerra; e anche agli
    americani che talvolta cercando di dare indicazioni che hanno l’aria di essere
    più ordini che consigli ad Israele. Per esempio ieri Biden ha dichiarato che
    Israele dovrebbe cambiare il suo governo che gli pare troppo sbilanciato a
    destra, il che secondo lui limiterebbe la solidarietà internazionale. Si tratta
    di una evidente violazione della sovranità israeliana, che per il momento è
    stata respinta senza neanche discuterne; ma è chiaro che questa interferenza
    nella politica interna israeliana continuerà a potrebbe portare a elezioni
    subito dopo la dine della guerra: si parla di aprile o di giugno.
     

    Due stati?

    Ma Biden ha aggiunto una cosa ancora più grave: che lo stato
    ebraico dovrebbe ora riaprire il discorso con l’Autorità Palestinese per la
    realizzazione del programma dei “due stati”. Ora i leader dell’Autorità
    Palestinese continuano a non condannare la strage del 7 ottobre, a denunciare
    in toni violentissimi l’”aggressione sionista” che sarebbe l’autodifesa di
    Israele in corso; a dire che “Hamas è parte del sistema politico palestinese e
    non deve essere eliminato” e che sarebbe auspicabile un governo di unità
    nazionale che li includesse (così ha detto l’altro giorno il primo ministro
    dell’ Autorità Palestinese Mohammad Shtayyeh). È possibile riaprire una
    trattativa con chi avanza queste posizioni politiche? Ancor di più, è chiaro
    che i terroristi sono istallati nei territori di Giudea e Samaria controllati
    dall’AP, che l’orientamento della popolazione rivelato dai sondaggi recenti è
    del tutto favorevole a Hamas, che insomma i rischi che vengono dai territori
    amministrati dall’AP sono ridotti solo per il fatto che essa non è uno stato e
    che le forze di sicurezza israeliane possono entrarvi e combattervi i
    terroristi, come hanno fatto massicciamente in questo periodo. Che accadrebbe
    se su quelle zone, a pochissimi chilometri da Gerusalemme e Tel Aviv, vi fosse un
    vero stato dai confini intangibili? Quanti altri 7 ottobre vi si
    preparerebbero? Una cosa oggi è chiara a tutti gli israeliani, anche a quelli
    che militavano nel “capo della pace”: che una cessione di sovranità
    all’Autorità Palestinese per quanto “rinnovata” non è possibile, perché sarebbe
    suicida. È probabile che su questo punto il dissenso con gli Usa, che non
    vogliono prendere atto di questa elementare verità, sia destinato a crescere in
    futuro.

     

     

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