Siamo arrivati al quarto giorno dell’attacco missilistico di Hamas e della Jihad Islamica al territorio di Israele e la situazione non è sostanzialmente cambiata rispetto ai giorni precedenti. Dalla striscia di Gaza partono centinaia di proiettili contro le città israeliane, spesso a raffiche molto fitte, pensate, per saturare le possibilità di difesa di Iron Dome. L’antimissile riesce per lo più a reggere la sfida, bloccando l’ottantacinque o il novanta per cento dei tiri destinati ad arrivare su case, scuole, ospedali, autobus: tutti obiettivi civili. Ma non è possibile ottenere una sicurezza assoluta: qualche tiro riesce a passare. E ogni razzo che arriva a colpire il suo obiettivo causa distruzione, feriti, terrore, talvolta vittime innocenti. Fra queste, ricordiamo due donne anziane, una badante indiana, un bambino di cinque anni: Ivo Avigal, ucciso a Sderot dalle schegge di un razzo che gli è entrato in casa; anche sua madre Shani Avigal che lo teneva in braccio è grave all’ospedale. Israele risponde colpendo obiettivi militari e di governo della Striscia, dopo aver preso tutti i provvedimenti per evitare di colpire i civili. Ha distrutto depositi e fabbriche d’armi, lanciarazzi, centri di comando, caserme e uffici militari ed eliminato un buon numero di comandanti terroristi di alto livello.
Ma, come era successo nel 2014, con tutta la sua forza non riesce a bloccare il lancio dei missili su Israele. Si parla ora di un’operazione terrestre, ma l’esperienza mostra che essa è costosa in termini di vite umane e difficilmente e solo lentamente è in grado di eliminare la capacità offensive di Hamas. Questa impossibilità deriva dalla natura asimmetrica di queste guerre: da un lato gruppi terroristi che sparano sui civili e sono indifferenti alle leggi internazionali, ben contenti se colpiscono donne e bambini, indifferenti alle perdite del proprio popolo, anzi ansiosi di sfruttarle per fini propagandistici, con centinaia di lanciarazzi, annidati in mezzo alle case, alle moschee, agli asili. Dall’altra parte un esercito regolare che fa attenzione alla liceità di ogni sua azione e cerca soprattutto di difendere i civili. Da una parte gruppi consistenti, se non la totalità della popolazione, che appoggia la “lotta armata”. Dall’altro un popolo che vuole solo vivere in pace e godersi la libertà riconquistata dopo l’incubo del Covid.
È importante capire che dunque l’iniziativa della guerra è in mano ai terroristi, i quali l’hanno iniziata, ne hanno deciso l’escalation, potrebbero terminarla se volessero solo interrompendo l’aggressione, smettendo di sparare i loro missili. L’esercito di Israele difende il paese, risponde alle aggressioni, procede a rappresaglie proporzionali agli attacchi. Non ha iniziato questa guerra e non è nelle sue possibilità decidere quando concluderla, senza concedere ai terroristi una vittoria che produrrebbe presto nuovi attacchi. Ci sono spinte internazionali per una tregua, come è sempre accaduto in tutti questi episodi di terrorismo missilistico massiccio che si ripetono regolarmente da una ventina d’anni. Ma Israele non può fermarsi prima di aver ottenuto sul campo o con la diplomazia che l’aggressione cessi davvero.
L’elemento nuovo e preoccupante che si è manifestato nelle ultime ore è però l’apertura di un altro fronte oltre a quello missilistico. Vi sono state cioè in molte parti di Israele, non solo a Gerusalemme e in Giudea e Samaria ma anche nella parte centrale del paese, numerosi casi di aggressione e di violenza collettiva, degenerati fino ad alcuni tentativi di linciaggio: alberghi e ristoranti distrutti ad Acco, con ferimenti e cacce all’uomo; sinagoghe distrutte a Lod; pestaggi, lanci di pietre, roghi di macchine a Haifa e a Gerusalemme, accoltellamenti e bombe incendiarie. Questi episodi provengono in gran parte da parte di gruppi di arabi israeliani contro gli ebrei, anche se vi sono stati casi di reazione violenta in senso opposto. Sono segnali molto gravi.
La società israeliana è plurale, comprende fra le tantissime differenze che la arricchiscono anche una minoranza araba consistente (intorno al venti per cento) che fruisce di tutti i diritti politici, civili e sociali, ha esponenti in tutti i settori professionali, economici, politici, istituzionali e gode dunque di una libertà e di un benessere che non si possono neppure lontanamente paragonare con le popolazioni degli stati circostanti. Per questa ragione, anche se le forze politiche arabe si sono quasi sempre tenute all’opposizione e hanno spesso manifestato atteggiamenti di rifiuto dello stato di Israele, la massa della popolazione araba ha per lo più evitato di farsi coinvolgere in manifestazioni violente e ha badato soprattutto al proprio benessere. Il terrorismo è stato per lo più importato dai territori amministrati dall’Autorità Palestinese e il coinvolgimento degli arabi israeliani vi è stato abbastanza raro. È probabile che ancora oggi questa situazione di convivenza pacifica tenga, ma è evidente il tentativo di Hamas e dei suoi alleati di coinvolgere gli arabi israeliani a sostegno della guerra. Purtroppo bastano gruppi abbastanza limitati per accendere i tumulti e questo è avvenuto un po’ dappertutto. Gli estremisti nella maggioranza ebraica, che sono pochi ma esistono, reagendo qua e là alle violenze arabe con le stesse maniere, di fatto favoriscono la strategia divisiva di Hamas. Tutte le forze politiche e le autorità civili e religiose dello stato si sono espresse contro questa deriva verso gli scontri interetnici di piazza. A Lod è stato proclamato un coprifuoco, le forze di polizia sono state schierate per bloccare le violenze. Ma è chiaro che sul piano politico prima che militare, l’apertura di un secondo fronte interno a Israele sarebbe un fatto molto grave, una vittoria per i terroristi.