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    ISRAELE

    La testimonianza di Noa Argamani al Presidente Herzog: “La Croce Rossa non è venuta ad aiutarci”

    “Ero piena di lividi, sanguinante, con la testa completamente aperta. Nessuno è venuto ad aiutarmi, né la Croce Rossa, né i medici, nessuno”. Questa la testimonianza di Noa Argamani, salvata dalla prigionia a Gaza sei mesi fa con un’operazione delle forze speciali, che ha partecipato a un incontro d’emergenza presso l’Ufficio del Presidente dedicato alle condizioni mediche degli ostaggi ancora detenuti. Nel suo intervento ha descritto pubblicamente le sofferenze subite, ricordando come nessun aiuto sia giunto durante i suoi giorni di prigionia.
    Prima del suo discorso, è stato mostrato un video della sua prigionia a Gaza, una versione breve e censurata che Argamani ha scelto di condividere per proteggere i presenti dall’orrore completo delle immagini. “Il missile dell’aeronautica ha colpito l’edificio in cui mi trovavo con Yossi Sharabi e Itay Svirsky – ha raccontato – Come sapete, Yossi non è sopravvissuto. Due giorni dopo, Itay è stato assassinato e solo questa settimana il suo corpo è stato restituito a Israele. Io sono rimasta ferita e, come si vede nel video, sono stata lasciata lì, sanguinante e senza cure. Quando i medici mi hanno vista al ritorno, hanno parlato di un miracolo medico”.
    Argamani ha sottolineato che altri ostaggi potrebbero aver subito condizioni simili, ma non hanno avuto la possibilità di far conoscere la loro situazione. “Nonostante ci fosse un video, non ho ricevuto cure. Non possiamo sapere in che condizioni siano i 100 ostaggi rimasti” ha ribadito.
    Un’altra testimonianza toccante è arrivata da Yocheved Lifshitz, ex ostaggio rilasciata durante uno scambio di prigionieri, mentre suo marito Oded è ancora in cattività. “Sono stata in prigionia per 17 giorni di troppo. – ha detto – Quando sono tornata, ero molto malata. Ho perso cinque chili e la pressione sanguigna era a terra. Mi hanno liberata solo perché temevano che contagiassi gli altri con la mia malattia. Se fossi rimasta lì per 50 giorni, sarei tornata in una bara”. Daniel Lifshitz, nipote di Oded, ha dato voce alla sofferenza delle famiglie che attendono il ritorno dei loro cari: “Sono 431 giorni di dolore inimmaginabile, fisico e mentale. Giorni di pianto, di deterioramento visibile. Non c’è nulla di più difficile che aspettare senza sapere, sperando in un miracolo”.  Lifshitz si è rivolto direttamente al Presidente: “Abbiamo bisogno di lei ora. Lei è la voce morale dello Stato di Israele. Faccia una dichiarazione chiara: la priorità assoluta deve essere il ritorno degli ostaggi. Non possono sopravvivere lì ancora a lungo”.
    Il Prof. Hagai Levine, a capo del sistema sanitario del Forum per gli ostaggi, ha espresso preoccupazione per il peggioramento delle condizioni di salute degli ostaggi. “Non hanno le riserve dello scorso inverno, sono tutti casi umanitari fragili. Nonostante tutto, la speranza non è morta. Quando gli ostaggi torneranno, sapremo come curarli, ma devono essere portati qui”. La dottoressa Einat Yehene, psicologa specializzata in riabilitazione, ha aggiunto che gli ostaggi sono a rischio elevato di suicidio. “Potrebbero perdere la speranza di essere salvati” ha avvertito.

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