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    La prudenza e la speranza: Cronaca di una terza dose di vaccino

    Si fa presto a dire terza dose.

     

    Quando ho offerto la spalla all’infermiera sotto la tenda allestita dal Magen David Adom, a Kikar Dizengoff a Tel Aviv, erano passati cinque mesi e una settimana dalla seconda dose. Non ho avuto, nemmeno questa volta, esitazioni. Semplicemente, questo è l’approccio con cui ho scelto di affrontare la pandemia: fiducia nella scienza e pensiero collettivo.

     

    È inevitabile che i numeri generino ansia, incertezza, dubbi. I contagi, i ricoveri, i morti. Che impongano scelte di comportamento. Spostarsi meno, indossare le mascherine, mantenere un distanziamento dagli altri, vaccinarsi una, due, tre volte.

     

    È  anche chiaro che solo il tempo e l’analisi dei dati – così fondamentali, che in tutto il mondo si stanno raccogliendo – riveleranno l’efficacia di scelte che, sul momento, non possono che basarsi su conoscenze pregresse, analogie, comparazioni, proiezioni e ipotesi.

     

    “Ze ma she iesh”, ovvero “questo è quello che c’è”, si dice da queste parti. Questi sono i tempi in cui viviamo. E la capacità di adattamento è la migliore qualità che si possa coltivare per andare avanti.

     

    A esser sincera, sospetto che, oltre a una propensione personale, il fatto di vivere a Tel Aviv abbia una certa influenza sulla levità con cui riesco ad approcciarmi alla pandemia e alle sue sfide.

     

    A questo pensavo l’altra sera, mentre attendevo il mio turno, in una fila che faceva il giro di quasi tutta la piazza, dietro a una famiglia di filippini. In una mano, un numeretto tipo banco del pane. Nell’altra, un ghiacciolo. Entrambi ricevuti da un addetto del MDA. Il ghiacciolo è servito ad alleviare la sensazione di calore e umidità. Ma è stato anche la consolazione dopo aver appreso – dal numeretto – che in attesa prima di me c’erano quasi cento persone. Un paio d’ore. Una fila in cui non mi sarei attardata per altri motivi. Non per entrare a un concerto, non per una pratica in un ufficio. Questo, in fondo, mi ha anche dato una misura del valore che stavo attribuendo alla terza dose.

     

    So che non tutti sono spensierati di fronte all’idea della terza dose.

     

    C’è chi teme per la propria salute. A me fa più paura il coronavirus, del vaccino. Di entrambi ignoriamo tutte le conseguenze. Ma il secondo ha lo scopo di proteggermi, e questo mi basta.

     

    C’è chi ne fa una questione etica, pensando a chi non ha avuto ancora accesso alla prima dose. Ma ormai siamo in ballo. In un paese come Israele, che è anche un caso di studio – per il discorso della raccolta dei dati di cui sopra – sarebbe controproducente interrompere una campagna di vaccinazione, i cui risultati andranno a beneficio di tutti.

     

    Anche grazie all’esempio di Israele, dove, nel giro di una settimana a metà giugno, siamo passati da contagi e restrizioni quasi a zero a una nuova ondata di variante Delta – ancora  oggi da domare – abbiamo imparato a mettere la prudenza davanti alla speranza.

     

    Intanto oggi riaprono le scuole, tra pochi giorni inizieranno le festività e un altro lockdown resta una ipotesi sempre meno probabile. Se a questo è servito porgere la spalla tre volte, sono orgogliosa di averlo fatto.

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