Guerra e terrorismo
C’è un dato strategico di partenza che spesso sfugge nella
situazione che si è creata in Medio Oriente a partire dal 7 ottobre, e cioè il
fatto che si tratta di una guerra. Una guerra preparata a lungo e iniziata di
sorpresa da Hamas, di cui i terroristi portano l’intera responsabilità e che
dura perché loro vogliono farla continuare, evitando di arrendersi anche se
sono in grave difficoltà, continuando a tenere gli israeliani rapiti e a
sparare razzi su obiettivi civili di Israele. Spesso ne parliamo come di una
strage, di uno stupro di massa, di un femminicidio senza precedenti, di
un’inaudita atrocità. Tutto questo è vero, naturalmente, si tratta di un evento
inaudito da decenni per la sua violenza; ma bisogna aver chiaro che questi sono
solo i mezzi barbari e feroci con cui Hamas conduce una guerra per conto
dell’Iran. Nel giudicare gli sviluppi della situazione, non basta considerare
l’aspetto morale e condannare la sciagurata inumanità delle azioni dei
terroristi, come non basta il discorso umanitario che guarda ai danni e alle
sofferenze delle popolazioni israeliana e anche di Gaza, che comunque sono
esclusivamente colpa di Hamas e degli altri gruppi terroristi che hanno
scatenato il conflitto senza ragioni contingenti, senza provocazioni, solo per
realizzare il programma politico proprio e dell’Iran, cioè la distruzione di
Israele.
La posta strategica
Bisogna guardare alla dimensione strategica e capire come
procede il progetto per cui la guerra è stata fatta. Sapendo che se vincono i
terroristi, anche solo restando al governo di una parte di Gaza o salvando la
pelle e le armi in esilio, e magari ottenendo la scarcerazione di altri
terroristi o la ripresa delle “trattative di pace” con l’Autorità Palestinese,
la vita di Israele è in pericolo; si sarà dimostrato che il terrorismo di massa
paga, altri attacchi come quello del 7 ottobre seguiranno, dal Nord se non da
Gaza, il fronte anti-iraniano e filo-occidentale sarà indebolito, le
organizzazioni islamiste prenderanno forza in tutto l’Occidente e la potenza
americana sarà più diffusamente sfidata da Russia e Cina, perché si sarà
dimostrata incapace di difendere un proprio avamposto. Se vince lo stato
ebraico, spiantando completamente il terrorismo da Gaza e magari anche dal
Libano meridionale, l’Iran sarà fortemente indebolito e si aprirà un processo
politico virtuoso che porterà a un’accelerazione dei processi di pace fra
Israele e i principali paesi arabi, a un fallimento conclamato del terrorismo
che avrà conseguenze a catena nel funzionamento dell’Autorità Palestinese, in
Siria, Iraq, Yemen e probabilmente in un’area più vasta ancora, coinvolgendo i
rapporti complessivi fra Occidente a l’asse nemico di Iran, Russia, Cina e loro
satelliti, l’espansione dell’islamismo in Europa, insomma la stabilità del
mondo. Per questo la sfida di queste settimane è veramente storica.
L’Iran e i suoi satelliti
Dai primi giorni della guerra, la capacità di reazione
israeliana e il pronto dispiegamento di una forza di deterrenza americana hanno
scoraggiato l’Iran a cercare di usare questa tappa come la battaglia decisiva
nella guerra, facendo entrare nel conflitto direttamente le proprie forze o
impegnando davvero le armi maggiori del suo principale braccio armato vicino a
Israele, cioè Hezbollah. Questo movimento terrorista, come i suoi omologhi più
deboli in Iraq, Siria, Yemen, si è impegnato in azioni soprattutto
dimostrative, benché sanguinose e capaci di fare danno. Spetterà a Israele
decidere se tollerare un nemico così pericoloso ai suoi confini, oppure cercare
di eliminare anch’esso qualora non si adegui alle risoluzioni prese dall’Onu a
partire dal 2006, che gli impongono di non essere presente al confine
israeliano, cioè non avere basi a sud del fiume Litani, a una quindicina di
chilometri dalla frontiera. È una distanza che non impedirebbe certo il lancio
di missili a medio e lungo raggio (Hezbollah ne ha, a quanto pare, dieci volte
più che Hamas) ma inibirebbe i tiri di razzi anticarro che sono venuti a
centinaia dal Libano sul territorio israeliano in questo periodo e soprattutto
renderebbe assai più difficile un’invasione di sorpresa come quella del 7
ottobre. Sposterebbe inoltre a sfavore dei terroristi la bilancia del potere
dentro il campo libanese, che sono oggi appoggiati dalla popolazione come lo è
Hamas fra i palestinesi. Toccherà poi alla comunità internazionale decidere se
è accettabile avere un nido di pirati che domina un passaggio cruciale per il
traffico internazionale come lo stretto di Bab El Mendeb, o eliminare
finalmente la minaccia degli Houti, armati e finanziati dall’Iran proprio per
far sì, come ha dichiarato il comandante della marina iraniana, che il Mar
Rosso (su cui l’Iran non ha coste, anzi da cui dista quasi 2000 chilometri) è
“parte del territorio iraniano e nessuno vi può circolare se noi non vogliamo).
Le dichiarazioni dei dirigenti di Hamas in esilio
Sugli sviluppi della guerra sono uscite ieri un paio di
dichiarazioni interessanti da parte di Hamas (che vanno sempre prese come atti
propagandistici, senza illudersi sulla loro sincerità). Un alto funzionario di
Hamas, Mousa Abu Marzouk, ha suggerito che il gruppo terroristico potrebbe
riconoscere lo Stato di Israele per porre fine all’attuale guerra con Israele,
dichiarando in un’intervista al sito di notizie Al-Monitor: “Bisogna seguire la
posizione ufficiale, cioè che l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della
Palestina] ha riconosciuto lo Stato di Israele”. Hamas, dunque, chiederebbe di
entrare nell’OLP, presieduta da Abu Mazen. Marzouk ha anche aggiunto che
“gli israeliani meritano diritti, ma non a scapito degli altri”. Ma
poi ha subito fatto marcia indietro, smentendo il riconoscimento da parte di
Hamas dell’”entità sionista”. Il capo del Politburo di Hamas, Ismail Haniyeh,
ha invece dichiarato mercoledì di essere pronto a discutere qualsiasi idea o
iniziativa volta a ripristinare il sistema politico palestinese e a porre fine
ai combattimenti. Ha affermato di essere interessato alla creazione di uno
Stato palestinese, senza specificare se ciò implicasse la disponibilità a
riconoscere Israele. In sostanza, è un’apertura per far ripartire i negoziati
per l’integrazione di Hamas nell’Autorità Palestinese, il cui primo ministro ha
già risposto dichiarando che Hamas è parte essenziale del sistema politico
palestinese. Il gesto di Haniyeh sarebbe insomma un tentativo di entrare
nell’ombrello protettivo dell’AP, che gli Usa sostengono e cui vogliono dare
Gaza. Ma si tratta di segnali confusi. Alla Conferenza islamica del Pakistan,
Haniyeh aveva invitato il Pakistan a minacciare Israele con armi nucleari per
bloccare l’offensiva il che ha causato tensioni in Qatar. Sono circolate anche
voci secondo cui Haniyeh e i suoi soci intendevano lasciare il Qatar e
stabilirsi in Algeria o in un altro paese arabo.