Una catena di omicidi
L’offensiva terroristica in Israele, esplosa già nella scorsa primavera, prosegue. Sabato un arabo israeliano di 31 anni, Hossein Karake, ha investito con la sua automobile un gruppetto di persone in attesa dell’autobus alla fermata di Ramot, un quartiere di Gerusalemme, uccidendo due fratelli bambini di 8 e 6 ann, Asher e Yaakov Menachem e un giovanissimo studente rabbinico, il ventenne Alter Shlomo Liderman. Diversi altri feriti, fra cui il padre dei due bimbi. Pochi giorni prima, un altro terrorista aveva sparato sui fedeli che uscivano da una sinagoga, uccidendo sette persone; il giorno successivo, il 29 gennaio, un ragazzino di 13 anni, ha ferito gravemente un padre e un figlio, sempre a Gerusalemme. Nel frattempo, le forze di sicurezza israeliane sono dovute intervenire ripetutamente in diverse località di Giudea e Samaria, dove erano state segnalate cellule terroristiche pronte a entrare in azione. Quasi sempre queste operazioni di arresto incontrano resistenza armata, che per lo più si concludono con la morte dei terroristi.
“Terza intifada”?
Qualcuno, anche da parte israeliana, chiama questa ondata terrorista “intifada”, che è una parola araba indicante il “sussulto” o lo “scossone” di un animale, da cui “sollevazione” e “rivolta”, che fu già applicata ai disordini degli anni Ottanta e poi a quelli fra il 2000 e il 2005. Anche il ministro della Sicurezza Pubblica Ben Gvir vi ha accennato, chiedendo alle forze dell’ordine di preparare una seconda operazione “Muro di difesa”, che fu il nome dell’intervento massiccio nelle città arabe capace finalmente di soffocare quell’ultima grande ondata di disordini. Ma alla situazione attuale manca il carattere di massa che caratterizzava le agitazioni precedenti. Vi sono piuttosto gruppi e cellule di giovani collegati ai principali gruppi terroristici, da Fatah (presieduta dallo stesso leader dell’Autorità palestinese Abbas) a Hamas, fino alla Jihad Islamica. Costoro sono ben armati di fucili mitragliatori, anche se sono capaci di usarli piuttosto contro i civili che contro le forze militari israeliane; spesso sono stati addestrati dall’Autorità Palestinese e risultano membri della sua “polizia” o dei suoi “servizi”; agiscono in maniera autonoma ma coordinata con le centrali del terrorismo.
Perché scegliere la morte?
Al di là delle etichette, ci sono due domande su cui vale la pena di soffermarsi. La prima è che cosa spinga giovani uomini di vent’anni o poco più, o addirittura ragazzini di 13, ad andare ad ammazzare dei passanti che non hanno alcuna colpa, con la certezza che nella maggior parte dei casi anche loro ci rimetteranno la vita. Guardano i filmati di questi attentati, è evidente che chi li compie cerca la morte di vittime che non conosce e anche la propria. Non c’è quasi tentativo di proteggersi, ma solo desiderio di sangue e di strage. Si tratta del frutto di un culto della morte che non ha eguali al mondo, venendo istillata fin da quando i futuri terroristi sono bambini piccoli. Si trovano in rete (e soprattutto nell’impressionante documentazione meritoriamente raccolta da memri.org) migliaia di esempi di indottrinamento alla morte: recite all’asilo, bambini che si esercitano con fucili più grandi di loro o mimano catture ed esecuzioni di “sionisti”, fumetti, canzoni, trasmissioni televisive, discorsi, manifestazioni di piazza, in cui si ribadisce che quel che più conta è “ammazzare gli ebrei”. Neanche le SS subivano un lavaggio del cervello così intenso e continuo. Bisogna dire che in buona parte esso è finanziato dagli Usa e dall’Europa (dunque anche dalle nostre tasse), attraverso quell’organismo incorreggibile che è l’UNRWA, il braccio dell’Onu che fra l’altro gestisce buona parte delle scuole in Giudea, Samaria e Gaza.
Gli obiettivi politici
La seconda domanda è quali siano gli obiettivi politici di questo terrorismo. Esso certo non è in grado di disarticolare la difesa israeliana – neanche ci prova in realtà – o di indurre gli israeliani ad arrendersi o fuggire, come ogni tanto suggeriscono i deliranti filmati propagandistici di Hamas. Se lo scopo è quello di attirare simpatia alla loro causa, anche in questo è un fallimento. Non solo non vi è vera solidarietà internazionale alla “lotta” di questi assassini di bambini, ma si sono avute dissociazioni significative, per esempio da parte degli stati arabi del Golfo e perfino del primo partito arabo alla Knesset, il Ra’am guidato da Mansour Abbas. Vi è senza dubbio il potenziale di odio e vendetta indotto dall’indottrinamento che gli attentatori vogliono esprimere e sfruttare. Ma gli obiettivi politici sono probabilmente altri. In primo luogo, paradossalmente, si tenta col sangue e con l’estremismo di estrarre il movimento palestinista dall’insignificanza cui proprio il sangue versato e l’estremismo l’ha confinato. Si vuole mostrare cioè che senza dar posto ai terroristi e alle loro istanze irrealistiche non potrà esservi pace in Medio Oriente. Ma è proprio il loro obiettivo politico, cioè la distruzione di Israele, a renderli insignificanti. Naturalmente chi li appoggia nonostante tutto, come ha fatto per esempio il sindaco di Barcellona Ada Colau rompendo nei giorni scorsi i rapporti con Israele per l’“apartheid” dei palestinesi, e anche i manifestanti antigovernativi in Israele che hanno avuto la sciagurata idea nei giorni scorsi di esporre bandiere palestinesi alle loro manifestazioni, agevola il pensiero delirante dei terroristi.
La lotta interna
In secondo luogo vi è una lotta interna per la successione ad Abbas, dittatore ottantasettenne malato e corrotto, che tutti vorrebbero sostituire. Dato che le elezioni non sono contemplate dalla costituzione politica reale del movimento palestinista, l’uso della violenza è la premessa del potere e prima di lottare fra loro ognuno di questi gruppi esibisce le sue armi contro l’obiettivo che pensano più gradito al loro pubblico, i civili israeliani. Infine i terroristi possono avere l’illusione di avere un peso nella lotta politica israeliana, che nelle ultime settimane ha assunto forme parossistiche, con discorsi di “colpi di stato” di cui è imputato il governo, “guerra civile” che alcuni oppositori auspicano, addirittura di minacce di omicidio a Netanyahu. Si tratta di bestialità inaccettabili, ma chi ne sente parlare attraverso il filtro propagandistico dei media palestinisti può credere che sia venuto il momento di entrare in azione. È facile diagnosticare che si tratta di illusioni, ma illusioni armate e sanguinose.