È una storia che sembra uscita dalla penna di John Le Carré, lo scrittore inglese di spy stories che ama raccontare le patetiche e talvolta comiche ma anche tragiche vicende dei pesci piccoli dello spionaggio: quelli che per vanità, ambizione o vendetta si ritrovano presi in una rete più grande di loro, di cui non capiscono niente e che per lo più li lascia nei peggiori guai. Ma questa è una storia vera, che riguarda da un lato quattro donne e un uomo, ebrei iraniani di mezza età immigrati da parecchio tempo in Israele e dall’altro un ragazzo sotto la trentina, che nella foto mostra occhiali pesanti e una barbetta rada, con lo sguardo furbetto e un po’ arrogante, rivolto dritto alla macchina fotografica. Ma nessuno sa se le foto sia vera, perché ai suoi agenti con cui parlava su WhatsApp diceva sempre di avere la fotocamera del telefono rotta.
Quest’uomo, che si faceva chiamare “Rambod Namdar”, ha contattato le sue vittime inizialmente su Facebook, dicendo di essere anche lui un ebreo iraniano, e ha chiesto loro di svolgere dei piccoli compiti: fotografie dell’ex ambasciata americana a Tel Aviv, di un centro commerciale a Holon, dell’edificio dei servizi sociali nella loro città. Alcuni di questi contatti sono durati tre o quattro anni, sono a un certo punto ai collaboratori di “Namdar” sono incominciate ad arrivare delle piccole somme di denaro, in un caso per esempio in tutto 5000 dollari. Progressivamente le vittime sono diventate complici, hanno iniziato a capire di trovarsi di fronte a una spia e probabilmente anche di essere ricattabili; e hanno ricevuto via via compiti più impegnativi: “Dì a tuo figlio, che deve fare il servizio militare, di arruolarsi nei servizi di informazione militare!” E poi: “fagli prendere dei documenti militari e passami la foto; fotografa la cerimonia del giuramento dove ci sono i suoi ufficiali e fammele avere; organizza nella tua città un club di emigrati persiani e passami le schede di chi si iscrive!” Un altro membro della rete aveva il compito di ricevere del denaro da aiutanti di “Rambod Namdar” che incontrava in Turchia. Poi c’è chi ha fotografato le schede elettorali, chi ha cercato di ottenere fotografie dettagliate della sede dell’ambasciata americana a Gerusalemme, chi è stato incaricato di cercare di contattare qualche deputato.
Sono tutti compiti poco importanti, ma lo spionaggio dei pesci piccoli inizia così, serve soprattutto ad avere dei collaboratori ricattabili, cui a certo punto si può ordinare qualcosa di grosso. Per esempio di recapitare una bomba o del veleno, o di fare senza saperlo da bersaglio umano per un attentato. E naturalmente questi contatti insignificanti servono anche a cercare di estendere la rete, sperando di riuscire prima o poi a contattare qualcuno che conti davvero. Lo Shabak, il servizio di controspionaggio interno di Israele, ha smantellato la rete a novembre e chissà da quanto la tallonava. Ora la notizia viene fuori perché evidentemente hanno portato alla luce tutto quel che si poteva scoprire. Senza dubbio anche gli iraniani hanno capito da tempo che i loro contatti erano “bruciati”, come direbbe Le Carrè. Adesso la vicenda viene raccontata, va sui giornali, ne ho parlato perfino il primo ministro Bennett: per uno scopo, diciamo, pedagogico. Si tratta di far capire al pubblico che un pericolo di infiltrazione c’è, che bisogna fare attenzione. Del resto in questi ultimi mesi lo Shabak aveva già rivelato che anche un uomo delle pulizie addetto alla casa del ministro della difesa Benny Gantz era in contatto con i servizi iraniani, o almeno ci aveva provato, offrendosi di inserire un software di spionaggio nel suo computer. Non sappiamo se i contatti fossero davvero iniziato, ma certamente il bersaglio era assai più grosso.
La verità è che fra Israele e Iran è in atto con intensità crescente quella che viene definita “campagna fra le guerre”, che comprende il tentativo iraniano di portare armi e soldati il più vicino possibile ai confini dello stato ebraico, il suo finanziamento e armamento dei terroristi tutt’intorno a Israele; e che da parte israeliana ha portato ai bombardamenti aerei di basi, fabbriche d’armi, linee di collegamento, per contrastare questa strategia di accerchiamento. Una campagna che si è estesa contemporaneamente anche ai collegamenti marittimi, alla cyber-guerra, al teatro diplomatico e alla mobilitazione dell’opinione pubblica in Occidente e nel mondo arabo. Ma che oggi è soprattutto una guerra di spionaggio. Com’è accaduto nel campo aereo, anche in quest’ultimo ambito Israele è in vantaggio: da quel che si sa, il Mossad è riuscito diverse volte a danneggiare gli impianti nucleari e a neutralizzare gli scienziati che cercano di svilupparli; con un grande colpo da maestro è riuscito a impadronirsi dei documenti che dimostrano la continuità del progetto di armamento nucleare degli ayatollah, che Netanyahu ha esibito al mondo. L’aviazione è in grado di dirigere con straordinaria precisione ed efficacia i suoi bombardamenti contro le spedizioni di armi avanzate in Siria perché i servizi sanno quando e dove queste spedizioni avvengono, dove sono i capi terroristi e gli alti ufficiali iraniani, chi comanda e chi obbedisce.
Ma anche l’Iran cerca di penetrare i segreti strategici di Israele, di produrre danni e sabotaggi: qualche tempo fa è stato fermato appena in tempo il tentativo di avvelenare l’acqua potabile infiltrando il sistema di disinfezione con cloro. E anche questi ultimi tentativi di infiltrazione per patetici che possano sembrare, indicano che per l’Iran stabilire delle reti di spionaggio in Israele è una priorità assoluta. Come in tutte le guerre di spie, ciò che arriva al pubblico è una parte molto piccola di ciò che accade e non certo la più significativa. Ma anche questi episodi mostrano che la “campagna fra le guerre” si sta scaldando e diventa progressivamente più dura, anche nella più segreta delle guerre, quella delle spie.