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    La forza del silenzio: vi racconto Yom HaShoah in Israele

    Yom HaShoah 2021: Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, Beer Sheva, Eilat. Il suono di una sirena pare squarciare i cieli d’Israele e il cuore degli israeliani. Un minuto di silenzio nel quale il paese si ferma, immobile, trattenendo il fiato, trattenendo le lacrime. Perché non è piangendo che si ricorda il dolore da queste parti. Giovani e vecchi, uomini e donne si alzano in segno di rispetto. Anche se rinchiusi in casa, nascosti dietro le porte blindate e le tende pesanti, nessuno rimane seduto al suono della sirena. Tutti si alzano e, con un gesto spontaneo, quasi di preghiera, abbassano il volto e raccolgono le braccia dietro la schiena. Persino le macchine interrompono la loro corsa e accostano ai margini dell’autostrada, perché nulla può infrangere il silenzio del ricordo.

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    Secondo la tradizione ebraica, il lutto si onora con il silenzio. Quando Giobbe venne colpito duramente, senza mai conoscere il perché delle sue sofferenze, si racconta che gli amici Elifaz, Bildad, e Zofar andarono a trovarlo per porgergli le condoglianze. Si racconta anche che, in un primo momento, i tre amici stettero in silenzio. Che non riuscirono a proferire parola. E perché? Perché il dolore non trova conforto nelle parole, ma solo nel silenzio condiviso. Ed ecco l’essenza di Yom HaShoah nello Stato Ebraico: il ricordo trova pace solo nel suono di una sirena che trasmette ciò che le parole non riescono a dire. 

    A raccontarmi ciò, in esclusiva per Shalom, è la scrittrice tedesca naturalizzata israeliana Savyon Liebrecht. Figlia della Shoah, nonché uno dei massimi esponenti israeliani della letteratura incentrata sul tema della memoria. “Il suono della sirena indica il culmine del ricordo, ma il ricordo non si basa solo su di esso”, spiega. “Il ricordo della Shoah in Israele, rappresenta il DNA stesso degli israeliani. È presente in ogni istante, in ogni conflitto, in ogni trauma, in ogni sguardo. È presente nel conscio e nell’inconscio. È presente senza farsi mai vedere o sentire, ma è presente sempre”.

    Abituati al Giorno della Memoria in Italia, il giorno del ricordo israeliano risulta dunque essere più intimo e sobrio. Più minimalista e contenuto. Come accusa Elena Loewenthal nel suo libro “Contro il Giorno della Memoria” (ADD Editore), infatti, quel giorno nato come presunto momento di riflessione e rievocazione, pare essere diventato nel tempo quasi un Festival della cultura ebraica. Un evento “non dissimile al Natale”, piuttosto che un giorno di introspezione e pentimento. Persino la scrittrice e poetessa sopravvissuta ad Auschwitz, Edith Bruck, mi confessò in un’intervista pubblicata su Mosaico, che il 27 di gennaio non lo ritiene più il Giorno della Memoria, bensì il giorno dell’invasione della Memoria. Poi aggiunse sussurrando: “Io quasi preferisco il ricordo in Israele, dove si rispetta solo un minuto di silenzio. Un minuto nel quale il mondo sembra fermarsi”.

    Eppure la memoria sembra diventare sempre più un fantasma nello Stato Ebraico moderno. Il ricordo quasi perde forma, diventa astratto. Non che gli israeliani vogliano dimenticare ciò che è stato, ci mancherebbe, non lo farebbero mai, ma la memoria della tragedia passata e quella presente si fonde in un unico ricordo. Entra talmente in profondità dell’animo israeliano, penetra sotto la pelle e dentro le ossa, che la percezione della storia muta e si evolve. Il confine tra le immagini in bianco e nero e quelle a colori, diventa talmente sottile da risultare a molti impercettibile. “Io ritengo che gli israeliani continueranno a ricordare, finché non ci sarà una vera pace nel Medio Oriente”, conclude Savyon Liebrecht. “Continueranno a percepire sulla propria pelle la tragedia della Shoah, finché questo senso di minaccia costante non si sarà del tutto istinto. Date le circostanze, tuttavia, temo che ciò non accadrà mai”.

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