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    L’esercito israeliano è entrato a Jenin. Le ragioni di una difficile e importante operazione

    L’operazione
    in corso

    La si
    attendeva da tempo, ora finalmente è cominciata: una grande operazione di
    polizia e forze militari per ripulire Jenin dalle infrastrutture del terrorismo
    è partita ieri e si prevede che duri per ancora un giorno o due. Davanti ai
    militari delle forze scelte sono entrati in città dei bulldozer per togliere
    dal percorso le bombe nascoste con cui i terroristi avevano provocato danni
    abbastanza gravi ai blindati di un’operazione più limitata di qualche giorno
    fa. Dall’alto l’operazione è assistita da elicotteri. L’obiettivo è eliminare
    depositi di armi, fabbriche di bombe, posti di coordinamento. di informazione e
    di arroccamento dei terroristi, di cui già diversi sono stati distrutti; ma
    anche neutralizzare le loro forze, che a Jenin contano parecchie centinaia di
    terroristi inquadrati, e soprattutto i loro capi. Si tratta di un’operazione
    difficile e rischiosa, che dev’essere condotta in una città di circa 40 mila
    abitanti dalle strade strette e tortuose, sostanzialmente priva di controllo
    statale. Vi sono in città numerosi poliziotti dell’Autorità Palestinese che
    però non rispondono se non ai capi terroristi. La popolazione sembra
    sostanzialmente consenziente e solidale con la lotta armata contro Israele e i
    terroristi si annidano nella case civili, nelle moschee e nelle scuole; ma le
    truppe israeliane sono impegnate ad attenersi alle leggi internazionali e fanno
    tutto il possibile per colpire solo i terroristi inquadrati ed armati, senza
    coinvolgere i civili.

     

    Come si è
    arrivati a questo punto

    Il terrorismo
    palestinese è in crescita continua da alcuni anni. All’inizio, tre anni fa,
    sembrava che ci fosse una “intifada dei coltelli”, intrapresa da “lupi
    solitari” con “mezzi artigianali” come le pietre, i coltelli da cucina o magari
    le automobili usate per investire apposta gli israeliani; poi gradualmente si è
    realizzato che queste operazioni non erano spontanee, ma frutto di incitamento.
    Dai coltelli si è passati alle bombe molotov, poi all’uso sempre più frequente
    delle armi da fuoco. Negli ultimi mesi, anche grazie all’affetto
    dell’indebolimento di Israele dovuto alle manifestazioni antigovernative e
    all’incitamento a rifiutare il servizio militare di riserva, sono emersi veri e
    propri reparti militari terroristi, bene armati anche con mitra rubati nelle basi
    militari israeliane e con bombe costruite su istruzioni provenienti in
    definitiva dall’Iran. Molti dei loro membri sono stati addestrati come
    “poliziotti” dall’Autorità Palestinese e magari dai suoi istruttori americani.
    Di recente proprio da Jenin sono stati addirittura lanciati dei razzi diretti a
    Gerusalemme. Questi sono caduti nei territori amministrati dall’Autorità
    Palestinese, ma è apparso chiarissimo il tentativo di riprodurre la dinamica
    delle basi terroriste che è stata sviluppata nella striscia di Gaza da Hamas,
    dopo il ritiro deciso da Sharon nel 2005. Non era possibile per Israele lasciar
    crescere un secondo bubbone terrorista e dunque si è deciso che non bastava più
    la tattica delle piccole operazioni di arresto notturno dei terroristi, eseguita
    nei mesi scorsi con grande dedizione e coraggio dalle forze speciali israeliane
    e che era necessaria un’operazione più vasta e radicale. Si tratta comunque di
    un’operazione intermedia.

     

    Perché
    Jenin

    Le basi
    operative della nuova ondata terroristica sono prevalentemente collocate in
    Samaria, per esempio a Huwara e Nablus, ma certamente l’epicentro è a Jenin,
    una città all’estremo nord del territorio dell’Autorità Palestinese, a una
    quindicina di chilometri da Afula e Beut Shean. Già durante il mandato britannico
    la cittadina era una roccaforte dell’estremismo; durante la guerra di
    Indipendenza essa ospitò i militari iracheni; poi vi fu costruito un campo
    profughi (che in realtà oggi è un normale quartiere di case in muratura che
    ospita un terzo della popolazione). Di qui partirono numerosi attacchi durante
    il periodo di disordini noto come “seconda intifada”: almeno 28 attentatori
    suicidi  partirono da quel campo negli
    anni fra il 2000 e il 2002, con 31 attacchi che fecero più di 120 vittime.
    Israele fu costretto a riconquistarlo nell’aprile 2002 con una difficile
    campagna casa per casa, in cui furono uccisi 23 soldati israeliani e 52
    terroristi. La battaglia, che durò parecchi giorni, fu anche il pretesto di una
    campagna internazionale di diffamazione e disinformazione, che cercò di far
    passere l’idea che si trattasse di una strage che aveva distrutto la città. Ora
    la situazione sembra in parte ripetersi ed è già cominciata una campagna di
    odio contro Israele.

     

    Ciò che è
    in gioco

    Come ha
    dichiarato il portavoce dello stato maggiore, Israele non ha assolutamente in
    progetto di riconquistare Jenin o di distruggere il campo da cui partono i
    terroristi. Israele non è interessato a governare i palestinesi, è ben contento
    della loro autonomia, al solo patto che essa non sia lo scudo del terrorismo.
    Se gli arabi che sono cittadini dell’Autorità Palestinese, e in particolare
    quelli di Jenin, Huwara, Nablus facessero quello che fa la popolazione di tutto
    il mondo, cioè lavorassero, producessero, pensassero al futuro loro e delle
    loro famiglie, non vi sarebbe alcun conflitto. Il problema è che ormai una
    quota consistente della popolazione palestinese di sesso maschile ed età
    giovanile si dedica non alla vita normale ma all’addestramento militare e
    all’attività terroristica, grazia all’incitamento continuo dei media e della
    scuola dell’Autorità Palestinese e ai finanziamenti e agli armamenti iraniani,
    spesso canalizzati da Hamas. Lo Stato di Israele vuole solo che la violenza
    cessi e ha il compito istituzionale di difendere i propri cittadini. Vuol
    farlo, per ovvie ragioni giuridiche, diplomatiche, militari ed economiche, col
    minimo dispendio di violenza e di vite umane. Questa è la linea seguita anche
    in questa operazione. Essa sarà una vittoria non in dipendenza del numero di
    terroristi uccisi e catturati, ma della calma che sarà raggiunta. Naturalmente
    l’interesse di Hamas, della Jihad islamica, di Fatah (e sullo sfondo dell’Iran)
    è l’opposto: la guerra, l’agitazione, l’insicurezza di Israele. Per questo
    dobbiamo aspettarci nuovi interventi terroristi, razzi da Gaza e dal nord di
    Israele, martellamento propagandistico. Ma la lucidità e la forza dell’esercito
    e del governo di Israele guidato da un esperto come Netanyahu sapranno
    prevalere su questi tentativi di rilancio.

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