Lentezza della guerra
La maggior parte delle guerre sono lente, fatte di piccoli episodi, di scontri di bassa intensità che si sommano fino alla decisione a favore di una delle due parti; non di battaglie decisive. Certamente questa lo è: sono ormai quasi sei mesi che Israele combatte la sua guerra contro il terrorismo a Gaza e i suoi alleati sugli altri confini, e ancora non se ne vede la conclusione. In generale le guerre sono lente per quel fenomeno che la strategia chiama attrito: il moltiplicarsi degli ostacoli da superare che consistono non solo nella resistenza del nemico, ma anche nel problema materiale di spostare le truppe, i rifornimenti, le armi e le munizioni; nella difficoltà di superare gli ostacoli naturali o artificiali, nelle tattiche di diversione, di fuga, di occultamente che vengono attuate dalle due parti; nel braccio di ferro per cui ogni progresso viene contrastato, metro per metro, combattente per combattente. Spesso la guerra è decisa dalla resilienza (dei soldati, della logistica, del sistema di comando, degli apparati tecnici, dell’economia, in definitiva del popolo) più che dall’impulso dei generali. In particolare è così per la guerra moderna che implica grandi lavori logistici e tecnologie complesse, con catene di rifornimento molto lunghe.
Le difficoltà dei combattimenti a Gaza
Ciò è vero anche per questa guerra. Ci sono dei periodi in cui sembra agli estranei che accada poco, e invece l’esercito israeliano sta spostando i reparti, accumulando le forze, o sta combattendo battaglie che non si vedono nel buio dei tunnel di Hamas, catturando o eliminando i quadri del nemico dove stanno nascosti, interrogando i prigionieri per trarne informazioni, decifrando i materiali trovati fra le carte e nei computer dei terroristi. Il primo problema è che questa è una guerra di guerriglia in cui il nemico si mimetizza in mezzo alla popolazione civile o nelle gallerie predisposte a questo scopo; si muove senza uniformi, confuso fra la gente, prende le armi dai nascondigli preparati da tempo, prova a colpire e a fuggire di nuovo in mezzo ai civili. I soldati di Israele devono guardarsi alle spalle, evitare gli agguati e le bombe, anch’esse preparate da tempo, capire dove sono i nemici, circondarli e distruggerli sgomberando i civili dietro a cui si nascondono. È quel che è accaduto nei giorni scorsi all’ospedale Shifa, dove sono stati catturati o uccisi centinaia di terroristi, compresi alcuni capi molto importanti di Hamas e l’intera direzione della Jihad Islamica: l’operazione più importante degli ultimi mesi, che è stata poco raccontata dalla stampa perché i terroristi cercano di non parlare delle loro sconfitte e Israele non vuole fornire argomenti demagogici alla propaganda antisemita, essendo stato costretto a combattere in un luogo che dovrebbe essere un ospedale, anche se in realtà era una centrale terrorista.
L’attrito americano
All’attrito connaturato alla guerra e in particolare a quella di guerriglia, si aggiunge poi in questo caso l’attrito politico, la resistenza che oppongono agli avanzamenti della guerra gli stessi alleati di Israele, in particolare gli Usa, indispensabili fornitori di rifornimenti militari e di protezione diplomatica all’Onu. Ciò vale in particolare per i due grandi passi che mancano alla conclusione vittoriosa: la conquista di Rafah e il respingimento degli Hezbollah lontano dal confine, dove dovrebbero stare per gli accordi che misero fine alla guerra del 2006. In entrambi i casi gli americani non vogliono che Israele faccia i passi decisivi e minacciano di sospendere il loro aiuto logistico e diplomatico, mentre Israele spiega che è necessario compiere il lavoro per non trovarsi di nuovo nelle condizioni del 7 ottobre. Questo contrasto è il senso dell’ennesima visita che il segretario di stato americano Blinken ha fatto negli ultimi giorni in Israele e del viaggio che lunedì farà a Washington una delegazione israeliana comprendente un paio di ministri importanti.
La posta in gioco
A partire dal Vietnam l’America ha paura di usare la propria potenza per vincere le guerre, come si vede in questi giorni in Yemen; cerca compromessi con i nemici come l’Iran; frena i propri alleati, come Israele ma anche l’Ucraina, centellinando i rifornimenti militari e stabilendo limiti alla loro azione; appoggia negoziati sfibranti come quello guidato dal Qatar, che hanno il senso di bloccare l’azione israeliana e di fornire argomenti alla demagogia antisraeliana nelle piazze di tutto il mondo. Ma Israele non può permettersi di vivere con un movimento terrorista come Hamas: se la guerra non fosse portata avanti fino alla sua distruzione avrebbe tutta la possibilità di vantarsi per essere sopravvissuto all’autodifesa israeliana, governerebbe ancora Gaza o avrebbe le forze per condizionare chi formalmente la amministrerebbe, riuscirebbe a gestire gli aiuti e a trasformarli in potenziale militare come ha fatto negli ultimi vent’anni, guadagnerebbe immenso prestigio politico per sé, per i suoi protettori iraniani, per l’idea che il conflitto fra l’Islam e non solo Israele ma l’intero occidente possa essere vinto dal terrorismo con l’uso della violenza più bestiale. E questo esempio sarebbe contagioso, porterebbe ad altri assalti non solo a Israele, ma anche all’Europa, agli Usa, a tutto il mondo. L’illusione di spegnere la guerra riattizzerebbe il fuoco del terrorismo con effetti devastanti dappertutto.
La doppia battaglia
Per evitare questa sconfitta terribile non solo per lo Stato ebraico ma anche per tutto il mondo, Israele deve conquistare le ultime roccaforti di Hamas, la cui più importante è Rafah; distruggere le forze terroriste che ancora non sono poche; catturare o uccidere i suoi capi; liberare i rapiti; continuare la caccia ai piccoli nuclei terroristi che ancora sono presenti in tutta Gaza come fa da tempo in Giudea e Samaria; deve cioè poter gestire per alcuni anni la sicurezza nella Striscia. Questo è il programma necessario per superare l’attacco terrorista del 7 ottobre; il problema di chi amministrerà Gaza è successivo o secondario. L’amministrazione Biden, l’Unione Europea, i governi occidentali, per non parlare dei fanatici in piazza e nella università, mostrano di non capire che questa è una guerra decisiva, non un’operazione di soccorso a una popolazione in difficoltà; e cercano di bloccare Israele in particolare demonizzando Netanyahu che lo guida, ma non è affatto solo: la grande maggioranza degli israeliani ha capito il carattere esistenziale di questa guerra e la appoggia e così in sostanza (anche se non esplicitamente) fanno molti governi mediorientali e una parte prevalente degli elettori americani. Per poter vincere la guerra di Gaza Israele deve sbloccare prima il freno dell’amministrazione Biden e della politica europea. Questa è la doppia battaglia oggi in corso.