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    L’Aliyah in tempi di conflitto

    Pubblichiamo il racconto di Margherita Calabi, che ha fatto l’Aliyah da Milano poco prima che chiudessero l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv durante l’attacco missilistico in Israele.

     

    Lunedì 10 Maggio, ore 06:00 del mattino. Il giorno è arrivato. Dopo un anno e tre mesi, con documenti in mano e una valigia piena di sogni, si parte. Destinazione: Tel Aviv.

     

    A Malpensa, dopo un check-in rapidissimo e il controllo sicurezza, arrivo al gate. Il volo di Austrian Airlines OS 508 è puntuale, si fa scalo a Vienna. Un altro controllo passaporti e poi via, nel lungo corridoio, alla ricerca del volo che, di lì a poco, mi porterà in Israele.

     

    Arriverò in uno dei momenti più difficili per il Paese, con un’escalation di violenza continua e i razzi che pioveranno da Hamas. L’emozione cresce, man mano che si avvicina il momento tanto atteso. Arrivo al gate con il permesso dell’Inter-Ministerial Permits Committee di Gerusalemme di salire a bordo. La hostess mi sorride: “Prego, da questa parte”. L’aeroplano è pieno, famiglie, bambini, businessmen, tutti in volo per tornare a casa. Si decolla. Apro Spotify e con la musica nelle orecchie cerco di rilassarmi un po’: fra meno di due ore realizzerò il mio sogno. E vivrò anche la mia prima esperienza di guerra, chiusa nella ‘Shelter Room’ di casa, dove mi nasconderò quando suoneranno le sirene di allarme in tutta la città. Ma questo ancora non lo posso immaginare.

     

    Mentre il mio vicino guarda una serie su Netflix, io guardo fuori dal finestrino e vedo il panorama cambiare, fino a che non arriviamo sulla costa. Il mare, la spiaggia, ed ecco, all’orizzonte, Tel Aviv. Proprio qui scoppierà l’allarme, proprio qui migliaia di cittadini cercheranno riparo nei rifugi tra poco più di 24 ore.

     

    Sono focalizzata sul presente: chi verrà a prendermi? Come farò a riconoscere il rappresentante di Aliyah che mi aspetta fuori dall’aereo? Sono loro a trovare me: due ragazze di diciannove anni mi vengono incontro con un sorriso. “Margherita? Welcome home”. Mi accompagnano a fare lo scan del passaporto italiano, cominciamo a fare conoscenza, mi chiedono quali sono i miei piani ora che sono in Israele. Una risponde al telefonino che squilla incessantemente. Si scusa e risponde. È il suo fidanzato e lei è molto preoccupata: dopo giorni di scontri violenti e centinaia di feriti sulla Spianata delle Moschee la tensione è alta. Arriviamo al ‘Passport Control’, quel controllo che tante volte prima di ora ho passato come straniera. È un momento da immortalare: mi faccio fare una foto, sotto l’insegna ‘Welcome to Israel’, con le mani rivolte al cielo. Ce l’ho fatta. Ci sediamo ad aspettare i documenti. La signora che si avvicina ha una busta con il mio nome scritto in grandi lettere azzurre. All’interno, la carta d’identità temporanea, una scheda Sim con il numero locale, 2500 shekels e tutte le indicazioni per diventare Israeliana a tutti gli effetti.

     

    Sempre scortata dalle ragazze – ormai abbiamo quasi stretto un’amicizia – ritiriamo i bagagli e mi portano a fare il test PCR. L’organizzazione è straordinaria, dopo dieci minuti sono seduta davanti a un’infermiera che mi da il benvenuto. “Shalom. Hai pochi bagagli per essere appena arrivata!”. “Grazie” le sorrido, “tutto quello di cui ho bisogno per la mia nuova vita è qui dentro”. Ed è proprio da questo momento che comincia tutto. Saluto le ragazze, facciamo un selfie insieme prima di separarci e fuori da Ben Gurion l’amico che mi aspetta da tempo mi abbraccia. Destinazione: Shalom Aleichem. Dopo poco più di mezz’ora nel traffico di rush hour di Tel Aviv, arrivo a casa. Ore 7.30. Apro la porta dell’appartamento all’ultimo piano. Esco in terrazza, con vista sui tetti della città. Sono arrivata in uno dei momenti più difficili dell’ultimo anno, ma ora scende sulla guancia una lacrima di commozione. Proprio da questa terrazza vedrò una pioggia di razzi la notte prossima. Poco dopo le 10 di sera suonano le sirene. Sembra di essere in un film. È una sensazione nuova, mai provata prima. È un misto di tensione, apprensione, batticuore, è la prima volta che mi trovo in una situazione di guerra. Alle sirene, seguono i razzi. E poi le esplosioni. Boom. Boom. Boom. Dei colpi nel cielo. Andrà tutto bene, mi dico. È un’esperienza forte. Unica. È difficile trovare le parole per descriverla. I botti mi rimangono dentro, la notte, quando provo a dormire. E poi suonano ancora le sirene, e in meno di un minuto bisogna mettersi al sicuro. Su whattsup le amiche mandano cuori: andrà tutto bene. Sono qui, finalmente, e nonostante tutto. 

     

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