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    L’aggressione di Hamas: un trauma collettivo per tutto il popolo ebraico. Quali effetti psicologici stiamo vivendo?

    L’aggressione proditoria di sabato 7 ottobre ha causato a tutti gli ebrei una ferita dalle dimensioni incalcolabili. Oltre millecinquecento morti, numerosissimi i feriti anche molto gravi e il dramma degli ostaggi, la cui sorte incerta ci preoccupa profondamente. Possiamo affermare che questa ferita, inedita per le sue dimensioni in termini di vite cancellate, per la particolare efferatezza degli aggressori e per l’incertezza dei suoi sviluppi, non può che rappresentare un vero e proprio trauma collettivo, paragonabile solo al peggiore dei Pogrom, anche se la lunga preparazione cui si sono sottoposti i carnefici non può non far pensare alla pianificazione della soluzione finale, il cui ricordo resta ancora vivo, nella nostra mente e nella nostra carne.

    Ma, possiamo chiederci oggi di fronte al Pogrom di Hamas, quali effetti psichici stiamo subendo, o quali potrebbero essere quelli futuri, a tutti i livelli, in chi ha subito un lutto familiare, la perdita di una persona cara, ma anche in chi, pur sentendosi profondamente coinvolto e partecipe, non è stato direttamente colpito perché nella diaspora o in zone diverse da quelle interessate dall’azione terroristica?

    Per esplorare l’interrogativo sulle conseguenze psichiche di questo terribile trauma, credo si debbano considerare più piani, dipendenti dalla posizione occupata o dalla condizione in cui si trova chi, in quanto ebreo, è stato o si sente comunque colpito da questa tragedia.

    Sebbene resti ovvio che chi ha subito la perdita di un congiunto diretto starà vivendo un dolore imparagonabile a quello di chi non è stato direttamente coinvolto, la sofferenza di fronte alle notizie e alle immagini sconvolgenti che ci arrivano credo sia comune ad ogni ebreo, in ogni angolo della terra, sentendoci tutti appartenenti ad una medesima famiglia e vivendo la propria identità come nata da una radice comune.

    Da distinguere, ovviamente, dalla comune matrice identitaria sono a mio parere quei presunti correligionari che scelgono, consapevolmente o meno, di estraniarsi dal destino comune identificandosi con gli aggressori, tentando una manovra difensiva basata sulla colpevolizzazione delle stesse vittime, rappresentando la preoccupante condizione caratterizzata dall’“odio di Sé” (ebraico).  

    Oltre il dolore, che possiamo considerare l’effetto più comune e naturale, che trasversalmente interessa gli ebrei del Maghreb come quelli di Manhattan o di Parigi, oltreché innanzitutto i cittadini israeliani, abbiamo una seconda più evidente conseguenza: la rabbia, che, se non espressa, fa da presupposto ad un terzo insidioso stato emotivo, quello che però paradossalmente ci consente di reagire, ossia il senso di impotenza.

    La rabbia, come insegnano gli esperti, induce l’aumento di una tensione interna che persegue una scarica, nel tentativo di riportare l’organismo o la mente ad uno stato di quiete, di equilibrio. Se la tensione non viene allentata sopraggiunge il senso di frustrazione e quindi di impotenza, causa a sua volta di sintomi ansiosi, depressivi o, in caso di situazioni particolarmente protratte, di ripercussioni psicosomatiche.

    I giovani haialim, i militari dell’IDF, oggi impegnati in un compito prezioso per la sopravvivenza dello Stato, credo si sentano nella condizione di sperimentare la possibilità di una reazione, concreta, vitale. Sanno di andare a combattere per difendere le proprie famiglie, il proprio futuro, la propria Terra e dunque per questo credo sia improbabile una caduta del loro tono di umore, lo scivolamento nella depressione.

    Tale eventualità, la comparsa di sintomi depressivi o ansiosi, ritengo sia maggiormente probabile in chi subisce il senso di impotenza senza riuscire a superarlo, in chi non trovi un modo per ribaltare la posizione passiva in quella attiva.

    Credo che una qualunque forma di reazione attiva, costruttiva, produttiva, sia nel momento drammatico che stiamo vivendo, il migliore antidoto contro i penosi stati emotivi rappresentati dal senso di impotenza e dalla depressione.

    È in questi casi che i più fortunati riescono a produrre iniziative in grado di sconfiggere la depressione, il senso di impotenza e la passività in cui il terrorismo vorrebbe gettarci. 

    Per tale motivo le iniziative di volontariato, le donazioni economiche per la causa comune non possono che essere considerate vere e proprie risorse terapeutiche per noi stessi ed il nostro animo ferito.


    Alberto Sonnino – Psichiatra e Psicoanalista

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