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    ISRAELE

    Kfir, Ariel, i nostri figli

    Abbiamo rincorso la speranza di vederli tornare vivi a casa per un anno e mezzo. Anche quando ogni cosa portava a temere che tutto fosse perduto per Kfir, Ariel e per la loro mamma Shiri Bibas. La speranza ha inseguito affannosa ogni singola vita nelle mani del male, come quella del padre Yarden, così dilaniato dalla prigionia e dall’angoscia e costretto alla crudele passerella propagandistica di Hamas che non poteva non rievocare le immagini e i filmati ripresi dai nazisti nei ghetti più di ottant’anni fa, quando gli ebrei erano costretti a mettersi in posa e fingere di vivere bene. Una cerimonia oscena a cui sono stati costretti anche i rapiti rilasciati senza vita Kfir, Ariel, Shiri e Oded.
    503 giorni di angoscia, strazio e speranza, per Kfir, Ariel e gli altri, mentre una buona parte di quel mondo che si definisce “civile”, scegliendo forse un termine che lo fa sentire al sicuro da quest’esercito orrendo di criminali, andava in piazza a sbandierare la propria solidarietà, connivenza, con i terroristi, o si voltava dall’altra parte e promuoveva Hamas al rango di un governo perbene, cercando la via più facile di lanciare ad Israele accuse oscene, di vedere nello Stato ebraico la causa ancestrale dei problemi del mondo. Il piccolo Kfir è diventato un simbolo, insieme ad Ariel, di un’innocenza violata, e scaraventata in un incubo che con la complicità del mondo lo ha inghiottito. La sua immagine, con il candore dei capelli rossi, di lui che corre per casa rincorso dalla mamma, degli abbracci, di quel quotidiano che non tornerà più, ha gridato nella sua terribile assenza, per tutte quelle vite aggredite dalla furia antisemita dal 7 ottobre. Ha gridato e grida per giovani e anziani, donne e uomini, bambini e soldati che come i loro nonni e genitori hanno combattuto per difendere la loro casa e un Paese che non ha mai cercato una guerra.
    Oggi due bambini tornano a casa senza vita, mentre Israele affronta dilemmi esistenziali a cui è costretta dalla crudeltà assoluta dei suoi persecutori, dalla furia sfrenata dell’odio, e che spingono lo Stato ebraico a enormi compromessi per riprendere i rapiti, ridotti a bottino e merce di scambio nelle mani assassine, e riportarli dalla parte della vita e della luce.
    La storia contemporanea del popolo ebraico è piena di drammatici esempi di piccoli innocenti divorati dall’odio, grazie anche al silenzio e alla connivenza operosa di tanti, proprio come oggi. Un milione e mezzo di bambini trucidati nei campi di sterminio, quelli colpiti, in tempi più recenti, fuori dalle sinagoghe o nelle scuole, nei kibbutz, a Nir Oz, Kfar Aza e altrove. Kfir oggi grida ancora per tutti loro, ma anche per gli altri, per quelli che in questa guerra hanno pagato con la vita, dei rapiti che ancora sono lì nel buio dei tunnel, ostaggi di persone “civili”, del terrore, e di quell’infame indifferenza e di chi è sempre pronto ad essere a fianco di diritti distorti e ribaltati degli odiatori d’Israele.
    Ma Kfir, come tutti i sommersi dagli assassini, ci spinge a rinnovare la speranza. Ci dice di non smettere di gridare per lui, per tutti loro, di sperare ancora, non solo che il vero mondo civile si risvegli e guardi alla realtà, ma che Israele vinca anche questa guerra, e schiacci per sempre ogni singolo assassino che vuole la sua fine e quella del popolo ebraico.

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