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    ISRAELE

    Israele penultima spiaggia

    La diaspora dopo il 7 ottobre, tra apocalittici e “business as usual”

    Più di tre millenni dopo Sansone, la città dei Filistei resta una minaccia mortale. Leon Uris aveva scritto, in conclusione del suo celebre romanzo “Exodus”, che dopo la sconfitta del 1949 i nemici fecero immediatamente base a Gaza e “organizzarono delle bande di fedayin allo scopo di massacrare gli israeliani; queste bande attraversavano il confine, la notte, per uccidere, distruggere, bruciare campi e tagliare acquedotti”. Aggiungeva però che “la bandiera con la stella di David garriva al vento da Elath a Metulla, e mai più sarebbe stata ammainata”. Ma la Galilea e il nord restano sotto la minaccia di Hezbollah, che dirige uno dei quattro fronti sui quali combatte Israele. Gli sfollati sono ormai almeno 100mila. Nella diaspora gli ottimisti ne vedono soltanto due e pensano che presto tutto tornerà come prima, in un modo o nell’altro. Molti non sono ottimisti, in quanto ritengono insostenibile in futuro il fronte delle discordie interne alla società israeliana, e anche – ma forse più duro – il fronte aperto dalle nuove città in Giudea e Samaria. Gli ebrei sanno che le storie sono necessarie.
    Era il 1957. “L’ultima spiaggia” fu il titolo, nella traduzione italiana, di un libro e poi di un film dello scrittore australiano Nevil Shute. Questa in breve la vicenda. La guerra termonucleare totale sta distruggendo la civiltà e la vita sul pianeta Terra. L’equipaggio di un sottomarino arriva in Australia. Riparte poi, su incarico del governo, alla ricerca di un luogo non contaminato dal fall-out radioattivo. Si scopre che non ne esiste più alcuno. Dopo la Shoah si è vista in Israele appunto una sorta di ultima spiaggia, un porto sicuro e definitivo. Adesso la diaspora, le diaspore, sta di nuovo ragionando – ma senza strepito – sulle conseguenze del 7 ottobre per la società israeliana e per gli ebrei. I cosiddetti “Patti di Abramo” mediati dal presidente Donald Trump avevano apparentemente trasformato il conflitto tra Israele e il mondo arabo-islamico in durissimo, periodico regolamento di conti e di territorio con i palestinesi. Però si aspettava la normalizzazione definitiva, con il sostegno dei sauditi. Su questa struttura di precarietà stabilizzata, costruita su antichi rancori e molte occasioni mancate, si è abbattuto un asteroide devastante. Si chiama Hamas, e continuerà a produrre lutti e guerre nonostante ogni tentativo di eliminarne i frammenti. La versione precedente della realtà ebraica – nel mondo della comunicazione istantanea – è stata ridotta in rovine la mattina di Shabbat Simchà Simchat Torà 5784, il 7 ottobre 2023. La guerra di Gaza è ormai conflitto totale tra nemici in apparenza irriducibili. Inoltre, il ritorno alla piena visibilità dell’altro nemico antichissimo qual è l’antigiudaismo militante, ha fornito alle fazioni più identitarie del mondo ebraico gli strumenti per il richiamo all’assoluta unità di valori e intenti. La diaspora, le diaspore sono disorientate. Da sempre gli ebrei combattono una battaglia difficile per un’informazione che non li uccida, nel senso letterale del termine. Non è per caso che il terrorismo di Hamas ha voluto colpire i simboli e le persone di un modo di vivere lontano dalle ideologie: un rave di giovani, il kibbutz, il moshav. I primi kibbutzim furono l’esito di una utopia socialista che rifiutava le tradizioni della stretta osservanza. Il movimento sionista proponeva un contratto semplice agli arabi che abitavano la provincia più desolata dell’Impero Ottomano. Sarete liberi dopo il feudalesimo, diventerete ricchi come i signori di Istanbul. Dovrete solo accettare lo Stato ebraico. Ben presto gli ebrei si accorsero che il contratto non funzionava. Oggi durante le guerre di Israele viene mostrato soltanto il peso della sua forte organizzazione militare. Piace raccontare che Davide si è praticamente trasformato in Golia, una fake che delizia i liberal dell’occidente tuttora – forse – democratico. Gaza ha dunque ottenuto quotidiane prime pagine e titoli di apertura nei telegiornali. Al mondo e alle pubbliche opinioni, soprattutto se islamiche, appariva dunque irrilevante la necessità di individuare i militanti di uno spietato, sadico squadrone della morte che si era accanito contro civili indifesi. Israele ha tentato di colpire un’organizzazione di brutali terroristi, di liberare gli ostaggi e infine distruggere centri di comando e infrastrutture. Ma le macerie hanno dominato i media. E tra le macerie le persone. Dei bambini e dei civili israeliani assassinati in decenni di inutile “intifada” nessuno ricorda più nulla. Alla fine in guerra conta soltanto il risultato. E per Israele il risultato, ovvero l’eliminazione di un nemico implacabile, appare incerto. Hamas ha provocato la distruzione del proprio regno. Resta il fatto che altri nemici di Israele stavano e restano altrove. Anche in certe università anglosassoni. Anche in molte piazze improvvisamente popolate da nostalgici dell’antigiudaismo nazifascista. E resta il caso Teheran. Gli ayatollah proteggono come scudi umani gli ebrei di casa loro, quasi volessero presentarsi al mondo nelle vesti di Assuero ovvero il re di Persia che prese in moglie Ester e la fece regina.

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