Chiamatela, se volete, guerriglia ecologica. O conflitto per la terra. Fatto sta che negli ultimi anni, più ancora che in passato, il conflitto fra Israele e i suoi nemici interni riguarda la terra, gli alberi, la vita agricola del territorio. L’ultimo episodio, che è ancora in corso e mette a rischio la vita del governo, riguarda il Negev, l’area desertica che copre tutto il Sud di Israele, dai monti della Giudea fino a Eilat. Seguendo una vocazione già affermata da Ben Gurion, lo stato ebraico ha fatto grandi sforzi per rendere accogliente questo grande triangolo di deserto roccioso, bellissimo ma infruttifero. Vi ha costruito dei kibbutz, ha realizzato delle coltivazioni nelle valli, fra cui molti vigneti e perfino degli impianti di acquacultura. Ha soprattutto impiantato dai boschi, secondo una procedura già sperimentata al nord: prima una generazione di conifere resistenti al caldo e alla mancanza d’acqua e capaci di spaccare la roccia, poi dopo qualche decennio una seconda generazione di alberi che possono dare frutti, costituire un suolo fertile e preparare un futuro agricolo. Molti di questi boschi sono finanziati dalla diaspora, coi bossoli e le donazioni del Keren Kajemet LeIsrael. In effetti il KKL è l’ente pubblico che realizza questo rimboschimento, così straordinario che si vede dalle foto satellitari: nella regione le terre di Israele appaiono verdi su uno sfondo di nuda roccia ocra. È forse il più bello fra i tanti miracoli di Israele.
Ma questo lavoro di riscatto ecologico non piace ai nemici dello stato ebraico. Perché è il segno concreto del rinnovamento portato dagli ebrei e perché una legge antica dice che la terra è di chi la coltiva. E anche perché i boschi sono l’inizio o la protezione dell’agricoltura, mentre le tribù beduine praticano una pastorizia povera ma estesa, che sfrutta le poche erbe prodotte dal deserto quando il cielo concede un po’ d’acqua e non vuole campi o boschi, con i loro recinti, a limitare il vagabondaggio delle greggi. I palloni incendiari lanciati da Gaza, che è al confine del deserto, mirano proprio a distruggere i boschi e i campi del Sud di Israele. Lo stesso fanno spesso incendi appiccati a mano, un vero e proprio terrorismo ecologico che negli ultimi anni si è molto diffuso. Ma adesso contro le piantagioni d’alberi che il KKL realizza soprattutto in questa stagione si è scatenata la violenza delle tribù beduine della regione. Da una decina di giorni intorno alle zone di impianto degli alberi avvengono gravi incidenti ed è dovuto intervenire anche l’esercito, arrestando decine di persone.
Ed è qui che entra in campo la politica. Il governo attuale di Israele ha una maggioranza di solo un voto (61 deputati su 120). La sua sopravvivenza dipende dunque da ogni sua singola componente, in particolare dal partito arabo Ra’am, legato alla Fratellanza Musulmana, che usa spregiudicatamente il suo potere di interdizione. Dopo aver ottenuto che anche le costruzioni illegali, come quelle dei villaggi beduini debbano essere collegate alla rete elettrica nazionale (un’autorizzazione di fatto degli abusi), Ra’am ha ora preteso che cessino i lavori di rimboschimento, arrivando anche ad astenersi dai lavori parlamentari, mettendo così in minoranza il governo. Ha subito ottenuto una sospensione del rimboschimento: una rinuncia almeno provvisoria a una delle tradizioni sioniste più significative, che è espressa anche sul piano religioso nella festa del “Capodanno degli alberi” che quest’anno cade il 17 gennaio.
Nell’attesa di vedere che cosa accadrà dei boschetti del KKL, bisogna sapere che in altre zone del paese, in particolare in Giudea e Samaria, è in atto una manovra opposta. Sono i palestinisti qui a piantare degli alberi (in questo caso direttamente degli ulivi) in zone contese, come accanto al villaggio di Efrat, nel Gush Etzion qualche chilometro a sud di Gerusalemme, per affermare la loro proprietà su terre dello stato su cui è progettata un’espansione dell’insediamento ebraico. Lo stesso accade in altri luoghi. La presa di proprietà del maggior numero possibile di terreni nell’area C di Giudea e Samaria (quella che gli accordi di Oslo assegnano al completo controllo israeliano) è una strategia ufficialmente decisa dall’Autorità Palestinese e sostenuta finanziariamente dall’Unione Europea. Qui non è mai stata annullata una legge turca che permette una rapida acquisizione di terre statali occupate o coltivate per qualche anno. E le terre private o privatizzate dagli arabi sono difese da sentenza della Corte Suprema di Israele, che ne impediscono l’esproprio.
L’attacco dei beduini al rimboschimento del KKL si svolge ben all’interno della linea verde, in territori che Israele controlla dal 1948; quello determinato dal tentativo di impadronirsi della proprietà con piantagioni e costruzioni abusive riguarda invece terre al di là della linea verde che lo Stato ebraico controlla dal 1967. La posta in gioco, in entrambi i casi, è il controllo della terra e la possibilità di espansione economica e demografica. Insomma anche questi casi di guerriglia agricola sono parte del conflitto generale per il controllo del territorio. È la vecchia guerra, condotta con altri mezzi: le naghe e le giovani piante non al posto delle armi ma al loro fianco.