
Paese piccolo, con un’industria avanzata ma risorse limitate in termini di materie prime, mercato, territorio, circondato da nemici numerosi e accaniti, insidiato dal terrorismo, Israele non può permettersi di scegliere i suoi alleati. Il primo e spesso unico alleato dai tempi di Ben Gurion, sono gli USA, concretamente i loro presidenti. Alcuni erano sostenitori veri, come Truman e Reagan, altri scettici come Nixon, diffidenti e antipatizzanti come Carter e Obama, contraddittori come Biden. Oggi c’è Trump, cui Israele ha sempre riconosciuto appoggio e molti meriti, dal trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e gli accordi di Abramo nel primo mandato fino ai rifornimenti di armi di queste settimane. Ma si può essere sicuri che questo appoggio continuerà? Non potrebbe finire anche Israele nella situazione di isolamento e ostilità che il presidente americano ha riservato per esempio a Zelenski e all’Ucraina?
Di Trump non si può mai essere sicuri. L’incertezza su quel che farà, la sorpresa di alcune sue scelte, il carattere provocatorio e eccessivo delle sue dichiarazioni non sono casi isolati ma fanno parte del suo stile di governo e di comunicazione. Vi sono diverse ragioni per questo atteggiamento. La prima è che nella società dello spettacolo in cui viviamo per un leader è essenziale fare notizia e certamente le sue sparate lo mettono ogni giorno sui titoli di testa di quotidiani e telegiornali. La seconda è che in una trattativa chi, avendo una base di forza adeguata, fa pretese esagerate, può spesso concludere accordi migliori di quelli che avrebbe ottenuto con proposte accettabili. La terza ragione è, per così dire, ideologica. Trump è convinto di essere stato imbrogliato e sfruttato in maniera disonesta: lui personalmente con le elezioni del 2020 e i procedimenti giudiziari che ne sono seguiti; gli USA guidati da truffatori e da incapaci e circondati da alleati disonesti e ingrati che si sono approfittati della protezione americana. È necessario dunque, dal suo punto di vista, non solo riparare a queste ingiustizie, ma anche far vedere chi comanda, gridare, insultare, per ristabilire il giusto rapporto gerarchico fra USA e resto del mondo e naturalmente anche fra lui e il “deep State”. Sullo sfondo, vi è anche l’idea che la politica sia un gioco a somma zero, dove uno vince e gli altri perdono e bisogna a ogni costo essere vincitori.
Questo modo di fare sorprende molto l’opinione pubblica europea, da generazioni abituata a non preoccuparsi della sua difesa perché sta sotto l’ombrello americano, a consumare la cultura popolare e i prodotti made in USA, ma dall’altro si riserva il diritto di snobbare la “primitiva” società americana e di contrastare quanto può la sua politica, anche in Medio Oriente.
In Israele l’atteggiamento è diverso, non solo per la presenza massiccia di immigrati americani. Lo Stato ebraico, impegnato nella lotta quotidiana per la difesa da chi lo vuole distruggere, ha conosciuto pressioni e veri e propri ricatti da tutti i presidenti americani. Ci sono stati epici scontri fra Golda Meir e Nixon (o Kissinger che lo rappresentava), come fra Netanyahu e Obama e anche di recente con Biden. Israele sa insomma come discutere con un alleato essenziale e molto più potente e conosce i limiti della propria libertà d’azione, come si è visto negli ultimi tempi da certe decisioni come il ritardo nell’ingresso a Rafah o il recente cessate il fuoco. Di più, Israele sa di significare molto più per il popolo americano dell’Ucraina o dell’Unione Europea. Possiamo sperare che il mondo politico israeliano e in particolare Netanyahu, con la sua grande esperienza, continuerà a saper leggere l’ “enigma Trump” e trovare con lui i necessari compromessi.