Il comunicato della Corte Penale
La Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja (da non confondere con la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), presso cui è in discussione una denuncia del Sudafrica contro Israele per “genocidio”) ha emesso mandati di arresto contro il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa, Yoav Gallant. In un comunicato, la CPI ha spiegato di avere “la ragionevole convinzione che Netanyahu e Gallant abbiano commesso crimini di guerra”. Essi, secondo la CPI, “hanno la responsabilità penale, inclusa la partecipazione condivisa ad atti commessi con altri, per il crimine di usare la fame come metodo di guerra e altri crimini contro l’umanità, inclusi omicidi, persecuzioni e altri atti disumani”. Inoltre essi, in quanto vertici civili delle forze armate, sarebbero “responsabili per il crimine di guerra di attacco intenzionale contro una popolazione civile”. I mandati di arresto naturalmente non avranno influenza nel funzionamento interno del governo israeliano, che li rifiuta, ma renderanno impossibile a Netanyahu e Gallant di recarsi all’estero, salvo i paesi che non aderiscono alla CPI, come gli Usa.
La reazione di Israele
“La decisione antisemita della Corte penale internazionale equivale a un moderno processo Dreyfus, e finirà allo stesso modo”, ha dichiarato l’ufficio del Primo ministro. “Israele respinge con veemenza le azioni e le accuse assurde e false contro di essa da parte della Corte penale internazionale, un organismo politico di parte e discriminatorio”. Nel comunicato si afferma anche che la decisione è stata sollecitata da “un procuratore capo corrotto che ha tentato di salvarsi da gravi accuse di molestie sessuali e da giudici di parte spinti dall’odio antisemita verso Israele”. Dichiarazioni di sostegno a Netanyahu e Gallant sono arrivate anche da tutti i principali ministri, dal presidente di Israele Herzog, dall’ex primo ministro Bennett e altri leader dell’opposizione. Vi sono state anche forti espressioni di solidarietà internazionali, soprattutto da parte americana. Al Congresso Usa pende una proposta di legge per sanzioni contro le azioni antisemite dei giudici della CPI, che sono tutti di nomina politica.
Il contesto
Il mandato d’arresto contro Netanyahu, Gallant e due capi terroristi nel frattempo eliminati (Sinwar e Deif – un accostamento di per sé odioso e assurdo) era stato chiesto dal procuratore presso la CPI Karim Khan già il 20 maggio scorso e poi era rimasto in sospeso sia per motivi di diritto che per il fatto che Khan era stato a sua volta indagato per il sospetto di molestie sessuali a carico di sue collaboratrici. Sul piano del diritto, per statuto la CPI è competente solo per i paesi che hanno aderito al suo trattato istitutivo (e Israele non lo è, come non lo sono gli Usa); inoltre perché essa possa intervenire è necessario che non vi sia un sistema giudiziario nel paese interessato che ha l’autorità di occuparsi dei crimini sospettati. Il primo argomento di incompetenza è stato aggirato accettando l’adesione dello “Stato di Palestina” e dicendo che i “crimini” si sono svolti sul suo territorio; alla seconda, per quel che si sa, non è stata data risposta. Alla fine la “Camera preliminare” della CPI ha emesso il mandato di cattura, proprio il giorno dopo a quello in cui gli Stati Uniti avevano dovuto opporre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approvata da tutti i quattordici altri membri, che voleva imporre a Israele il cessate il fuoco (senza parlare degli ostaggi e senza poterlo fare con Hamas e Hezbollah, che non sono vincolati alle decisioni dell’Onu perché non sono stati membri); a quello in cui all’ex ministro della giustizia di Israele Ayelet Shaked era stato negato l’ingresso in Australia dal locale governo laburista perché contraria alla “soluzione dei due stati”; pochi giorni dopo che il “ministro degli esteri” uscente dell’Unione Europea, il socialista spagnolo Josep Borrell aveva proposto, per fortuna senza successo, di interrompere tutti i rapporti dell’Unione Europea con Israele.
L’ottavo fronte
In realtà, al di là degli aspetti giuridici e politici della decisione della CPI, quel che risulta chiaro è che le relazioni internazionali diplomatiche e giudiziarie sono l’ottavo fronte della guerra contro Israele. Lo stato ebraico sta vincendo sul terreno a Gaza e in Libano, ha inferto colpi molto duri ai suoi nemici in Yemen e in Iraq, ha bombardato l’Iran tanto efficacemente da indurlo a non provare a replicare, ha duramente colpito l’organizzazione terroristica in Giudea e Samaria, ha bloccato i tentativi di coinvolgere nel terrorismo la Giordania. Insomma sta nettamente prevalendo sui sette fronti della guerra e attende l’ingresso in carica di Trump per poter usare appieno i suoi mezzi contro l’Iran senza i vincoli imposti dall’amministrazione Biden, in modo da poterne eliminare del tutto la minaccia. Ma resta il fronte esterno, quello delle piazze e delle università europee e americane invase da antisemiti violenti. E soprattutto resta quello della diplomazia e della giustizia, l’ottavo fronte, dove l’offensiva contro Israele non ha soste.
Il senso politico di una decisone contro la giustizia
Il provvedimento della CPI va pensato così, come parte di questa offensiva, che mira a paralizzare la solidarietà contro Israele, a impedire allo Stato ebraico di ottenere rifornimenti delle armi e munizioni necessarie, a preservare la dirigenza e la capacità offensiva dei terroristi che oggi colpiscono Israele e in futuro assalirebbero l’Occidente. Non solo dunque la delibera della CPI non ha nulla a che fare con la giustizia, anzi si può sintetizzare col motto “Ingiustizia è fatta”. Quel che deve essere chiaro è che si tratta di un atto di guerra, di un’azione pienamente allineata con Hamas, Hezbollah e l’Iran, che naturalmente hanno salutato con giubilo i mandati di arresto. Una delle tragedie del nostro tempo è che istituzioni concepite per portare giustizia e pace nel mondo, come l’Onu e la CPI, siano diventate strumenti del terrorismo e della distruzione.