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    In Medio Oriente il “Patto di Abramo” ha trasformato anche la comunicazione. Per sempre.

    Nella prima settimana di aprile 2021 l’agenzia di stampa degli Emirati Arabi Uniti (UAE) ha inaugurato sul WEB i propri servizi in ebraico. L’ebraico diviene così la diciannovesima lingua disponibile sulla WAM, la rete di Stato. È significativo il fatto che la notizia sia apparsa già mercoledì 7 su Arab News, sito ufficiale in inglese del Regno dell’Arabia Saudita. Il sito si avvale anche dei contributi di editorialisti di tutto il mondo, tra i quali alcuni ebrei di area liberal, e procede in parallelo con l’omonimo e diffuso quotidiano cartaceo, come anche con il sito Al-Arabiya strettamente collegato ma più esplicito e privo dei vincoli dell’ufficialità. Arab News apriva il notiziario proponendo la schermata inaugurale del nuovo servizio WAM, con tanto di bandiera d’Israele ben visibile sottovento accanto a quella degli Emirati. Il Patto di Abramo ha prodotto effetti impensabili soprattutto nella comunicazione.  È vero tuttavia che nel conflitto meno trattabile del secolo passato la razionalità trovò finalmente il modo di prevalere, quasi mezzo secolo fa, nel 1974 chiudendo l’ultima di tre guerre totali. La pace con l’Egitto è tuttora una pace fredda, anche se i turisti israeliani invadono periodicamente i resort del Mar Rosso, adesso anche con un corridoio covid free. Però il presidente egiziano che aveva firmato il primo trattato di pace di un paese arabo con Israele pagò con la vita il proprio coraggio. Anwar al-Sadat fu assassinato da estremisti islamici il 6 ottobre del 1981. Sono dunque trascorsi 40 anni. Altri esponenti di un Islam radicale, storicamente differente e che oggi vede in Teheran il proprio centro operativo, tentano con ogni mezzo di sabotare un risultato straordinario quale è appunto il Patto di Abramo. La grande politica internazionale dovrebbe all’unanimità riconoscerne il carattere liberatorio, decisivo. Ma il Patto anche qui da noi non ha raccolto il consenso che merita. Sembra incredibile. Gli interessi sempre inquinanti del petrolio, nonostante le promesse di una green revolution della quale nessuno vede finora l’inizio, dominano tuttora lo scacchiere mediorientale. L’Arabia Saudita ha dato inizio ad una graduale politica di riforme e si sta appropriando del pieno controllo del suo oro nero, con l’intento dichiarato di sottrarlo agli amici ingombranti di Washington, sfruttarlo per il minimo indispensabile e passare all’avanguardia nella transizione verso l’energia solare che arroventa 2 milioni di chilometri quadrati di sabbia e rocce. Ma evidentemente si preferisce il petrolio iraniano. Infatti costerà molto poco e attirerà investimenti miliardari: basterà alleggerire le sanzioni antinucleari. E pazienza se i dollari e gli euro del petrolio si trasformeranno in incentivo per la politica aggressiva di Teheran, anziché in generi di prima necessità per il popolo. Resta la buona notizia che ad alcuni non piace: gli aerei di linea con lo scudo di David fanno la spola tra Doha e Tel Aviv volando senza problemi sui deserti di Saudia (così in Israele da sempre chiamano il Regno, che finanziava un tempo le guerre arabe ma oggi teme soprattutto il regime degli ayatollah). L’occidente ama definirsi laico e democratico, e a quanto pare scopre soltanto adesso che il Patto di Abramo lo hanno voluto le ruling families al governo nelle monarchie del Golfo. Re ed emiri preferiscono la pace con Israele perché sanno che lo Stato Ebraico ha creato dal nulla un’economia prospera e può fornire tecnologie d’avanguardia. Certo, hanno delle libertà individuali idee lontane da ciò che viene garantito nelle nostre costituzioni. Ma il principe ereditario saudita e gli emirati tentano caute aperture per superare antichi pregiudizi e una mentalità collettiva tuttora legata ai clan territoriali. Il principe ha messo al volante le signore di Riyad, concede con una larghezza i passaporti, ha abolito la polizia religiosa e allentato in molte aree della vita sociale la stretta osservanza della tradizione wahabita, pilastro teologico del Regno. Non ha nascosto al suo popolo, e neppure al mondo, la gravità di Covid 19: e in materia è meno ambiguo di parecchi politici attivi, forse anche troppo, nella disorientata Europa della pandemia.

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