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    Il suono delle sirene. Oggi come allora

    In una scena del nuovo film “Golda”, ambientato durante e subito dopo la guerra del Kippur, un suono di sirena di un raid aereo interrompe una riunione dell’allora gabinetto israeliano.

     

    Ascoltare quel rumore acuto e oscillante mi ha riportato ai giorni di quella guerra del 1973, scuotendomi nel profondo. In quel momento mi sono nuovamente sentito come quel bambino di 5 anni che ascoltava per la prima volta quel suono troppo conosciuto per gli israeliani di allora, come per quelli di oggi.

     

    Siamo arrivati al porto di Haifa il 5 ottobre di quell’anno a bordo della nave passeggeri Nili, acronimo della frase biblica “netzach Yisrael lo yishaker”, l’eternità di Israele non mentirà. Sei giorni dopo aver lasciato la nostra casa a Testaccio e aver attraversato il Mediterraneo, stavamo iniziando un nuovo capitolo della nostra vita in un centro di accoglienza nella città di Lod, la nostra prima casa in Israele, vicino a Tel Aviv.

     

    Appena 24 ore dopo ci avrebbe atteso lo scoppio della guerra. La notte prima, così racconta la storia di famiglia, il ronzio degli aerei che volavano costantemente sopra di noi rendeva mia madre ansiosa, mentre mio padre era imperturbabile. Dopotutto, con un aeroporto internazionale nelle vicinanze, c’era da aspettarselo.

     

    I miei ricordi di quella guerra iniziano con una sirena che svegliò me, i miei genitori e i miei due fratelli più piccoli dal sonno. Ricordo di essere stato portato in braccio nel rifugio antiaereo, dove

    una varietà di lingue riempiva l’aria: un’unica trasmissione televisiva in ebraico, a volte sovrastata da conversazioni in spagnolo, russo e marathi, la lingua madre della comunità Benè Israel dell’India.

     

    Ricordo i fari della nostra macchina dipinti di blu e le tende tirate al tramonto: precauzioni richieste dalle restrizioni ufficiali di blackout durate quasi tre settimane. Ricordo il reticolo di nastro adesivo messo sulle finestre del mio asilo, in caso di esplosione.

     

    Non credo di aver avuto paura. Ero solo un bambino che osservava con curiosità questo nuovo mondo che lo circondava. Se non altro, potrei essere stato impensierito dal fatto che i miei genitori fossero preoccupati. Spesso ho domandato a me stesso, ma mai a loro, cosa provassero loro, che avevano vissuto Roma sotto l’occupazione nazista e visto così tanti parenti stretti e lontani essere deportati ad Auschwitz per non tornare mai più.

     

    La guerra del Kippur, che segna quest’anno il suo cinquantesimo anniversario, rimane un trauma collettivo profondamente doloroso nella storia di Israele. Il risultato fu un numero impressionante di vittime, con quasi 2.700 israeliani uccisi e 7.000 feriti, su una popolazione di 3,27 milioni di abitanti. Delle centinaia dei nostri soldati che furono fatti prigionieri, molti subirono abusi, torture e fame in Egitto e in Siria.

     

    Non sorprende che quella guerra abbia avuto un effetto duraturo anche su di me. Ho sviluppato un interesse per la sua storia. Ciò, a sua volta, ha influenzato la mia visione del mondo ed è stata una delle forze motivanti dietro la mia decisione di intraprendere la carriera di diplomatico.

     

    Le ripercussioni collettive e individuali della guerra dello Yom Kippur si riflettono, tra le altre cose, nel dibattito pubblico costante, alimentato da nuovi libri e informazioni non più classificate, che continuano ad attirare l’attenzione dell’odierna società israeliana.

     

    Un esempio recente è la popolarità della serie televisiva del 2020 “Sha’at Neilah” (“Valley of Tears”), che racconta la storia di un gruppo di soldati nell’avamposto del Monte Hermon durante la guerra. Decine di migliaia di israeliani, molti dei quali veterani della guerra, si sono uniti a una pagina dedicata su Facebook, lanciata da Kan, l’emittente della serie, per condividere esperienze personali.

     

    La sera del 9 ottobre, quarto giorno di guerra, il generale maggiore Aharon Yariv, consigliere speciale del capo di stato maggiore David Elazar, ha dichiarato in una conferenza stampa: “Invito tutti noi a non pensare in termini di minaccia all’esistenza dello Stato di Israele. Non esiste un pericolo del genere perché il popolo israeliano e le forze di difesa israeliane sono forti”.

     

    Il mio viaggio personale si è intrecciato con la storia della nostra nazione. Quel bambino impavido di 50 anni fa e il diplomatico veterano che sono oggi credono entrambi nella forza di Am Israel, il popolo di Israele, e nella nostra capacità di perseverare attraverso grandi sfide.

     

    Ciò è vero anche oggi, mentre Israele si ritrova nuovamente sotto attacco da parte di nemici pieni di odio che disprezzano il diritto internazionale e gli standard umanitari e che mostrano la volontà di commettere i peggiori crimini di guerra.

     

    Le nostre famiglie, i nostri antenati, hanno dimostrato più volte che possiamo superare le avversità e continuare a prosperare. Sono convinto che sarà così anche questa volta.



    Marco Sermoneta – Console Generale d’Israele a San Francisco

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