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    ISRAELE

    Il silenzio dei media sulla guerra a Gaza e il senso politico della guerra

    Perché non ne parlano quasi più
    Dopo quasi nove mesi di combattimenti, i media riportano ormai poche notizie sulla guerra di Gaza. Questo non accade perché le battaglie siano finite (anzi nell’ultima settimana ci sono stati combattimenti molto duri), ma per due ragioni connesse: la prima è che questa guerra, come quasi tutte non è fatta tanto di battaglie decisive e manovre improvvise quanto di combattimenti locali, di piccoli avanzamenti nel territorio e purtroppo anche di perdite individuali. In particolare una guerra asimmetrica come questa contro forze terroriste nascoste in mezzo ai civili o nelle fortificazioni sotterranee, da cui escono quasi solo per tendere agguati all’esercito israeliano, consiste soprattutto in pazienti e guardinghe esplorazioni dei luoghi dove potrebbero esserci tunnel, pozzi, depositi d’armi, missili, cecchini e della messa in sicurezza del territorio, badando a non lasciar mai scoperte le spalle. Altra cosa sarà la guerra di terra in Libano, se si farà davvero, almeno al suo inizio. Ci saranno avanzate, battaglie, bombardamenti diffusi. Ma dobbiamo già sapere che probabilmente anch’essa si svilupperà poi con la stessa lentezza, fatica e difficoltà che i giornali non sanno raccontare. Il grande teorico Von Clausewitz insegnava che il fattore bellico forse più importante è l’attrito.

    Smentite le previsioni catastrofiche
    La seconda ragione del silenzio dei media è che in questo momento molti tra essi non sono capaci di trovare argomenti contro Israele, il che purtroppo è la loro principale ragione di interesse in questa guerra. Chi sproloquiava di genocidio sulla base dei “dati” forniti da Hamas deve prendere atto che anche il Congresso americano ha stabilito in una mozione che essi non sono credibili; e comunque che anche quei i numeri di morti sono fermi ben sotto i 40 mila, almeno per la metà costituiti da truppe terroriste: un livello assolutamente imparagonabile non solo con un genocidio vero, ma anche con le vittime della “primavera araba” (per fare un esempio, allora vi furono 570 mila morti solo in Siria). C’è poi un punto più attuale. Politici, intellettuali, giornali avevano profetizzato un immane disastro umanitario, militare, diplomatico se l’esercito israeliano fosse entrato nell’ultima roccaforte terrorista di Rafah; e invece ormai la città è da tempo isolata dal confine con l’Egitto, da cui si contrabbandavano armi e combattenti; il suo territorio è all’80% controllato da Israele e invece nessun disastro è accaduto, se non si considera tale lo smantellamento degli ultimi battaglioni organizzati di Hamas. Naturalmente nessuno ha ammesso di aver sbagliato, da Biden all’ultimo corrispondente giornalistico da Israele. Semplicemente non ne parlano più. E così per l’asserita fame della popolazione, smentita anche dall’Onu e per tante altre calunnie.

    Politica con altri mezzi
    C’è una cosa in più da tener sempre presente. Le guerre non sono eventi isolati dal resto, che si vincono o si perdono solo sul terreno, come accade nelle competizioni sportive che pure in qualche modo le simboleggiano. Ancora Clausewitz insegnava che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Dunque il terreno decisivo è quello politico. Questa è la ragione per cui i terroristi, pur chiaramente sconfitti in battaglia, resistono e dichiarano addirittura di stare vincendo. Sul piano politico hanno ottenuto molto, appoggiandosi all’antisemitismo sotterraneo di molti, atteggiandosi a vittime sono riusciti a ottenere la simpatia del mondo, anche di quello democratico, nonostante i crimini orrendi che hanno commesso. Gestendo con astuzia le trattative per il cessate il fuoco, anche con l’aiuto della “mediazione” tutt’altro che imparziale del Qatar, hanno avuto modo di ottenere la sponda dell’amministrazione Biden (ma ora la crisi della ricandidatura del presidente Usa apre scenari nuovi difficili da valutare). Con l’aiuto dell’odio anti-occidentale di certi stati e del vertice dell’Onu, si sono assicurati la tribuna delle corti internazionali di giustizia e della commissioni Onu dei diritti umani. Sfruttando cinicamente gli ostaggi che hanno rapito, hanno potuto riaprire la divisione interna al mondo politico israeliano, facendo ripartire la campagne d’odio e le manifestazioni estremiste che già un anno fa avevano indebolito lo Stato ebraico al punto da rendere una scommessa ragionevole, dal loro perverso punto di vista, il feroce attacco del 7 ottobre.

    Le difficoltà della democrazia
    A differenza dei suoi nemici Israele è uno stato democratico, in le diverse posizioni si confrontano pubblicamente anche in maniera molto dura e non esiste un potere assoluto ma ogni livello istituzionale può e deve esercitare il suo intervento secondo le proprie regole. Questa organizzazione democratica è un fine in sé, perché garantisce la libertà e l’uguaglianza di fronte alle leggi; e per questa ragione è anche una forza immensa, perché sacrifici anche terribili come quelli che impone la guerra sono stabiliti non per scelte arbitrarie di qualcuno ma col consenso collettivo, nelle forme garantite dalle elezioni e dal sistema parlamentare.

    Il reclutamento dei charedim
    Ma questa fondamentale risorsa può anche portare a difficoltà momentanee. È il caso della sentenza della Corte Suprema che qualche giorno fa ha imposto al governo di abbandonare un compromesso stabilito già da Ben Gurion alla fondazione dello Stato per cui gli studiosi delle accademie talmudiche sono stati sempre esonerati dall’obbligo del servizio militare. All’inizio si trattava di poche centinaia di persone, oggi sono decine di migliaia. L’annullamento di questa regola non deriva da una necessità militare, perché l’esercito oggi ha bisogno di armi sofisticate e di specialisti che le sappiano usare, non di soldati senza competenze tecniche e poco motivati. Ma è chiaro che c’è un problema di giustizia: che tutto un settore sociale come quello dei charedim sia sottratto alle durezze della guerra è intollerabile per molti che invece ne subiscono il terribile impatto. Insieme si tratta di una misura che rischia di dividere il governo dove siedono i partiti che rappresentano quel gruppo sociale e difendono con ragioni tradizionali e religiose il compromesso di Ben Gurion. È chiaro che durante una guerra terribile in cui devono essere prese molte decisioni che richiedono i poteri integrali del governo, una crisi politica che portasse a nuove elezioni (tecnicamente impossibili prima dell’autunno) porterebbe a una paralisi devastante, anche se auspicata da qualche oppositore estremista. Ed è probabile che il fronte dei nemici di Israele conti proprio su questo indebolimento per cavarsela e reclamare la vittoria. La partita politica è piena di colpi di scena e decisiva tanto sul fronte internazionale che su quello interno, mentre la guerra prosegue col suo passo lento.

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