La politica interna israeliana negli ultimi anni è come una serie tv: ripetitiva, riempita dagli stessi personaggi e da situazioni molto simile, ma piena di colpi di scena, di rovesciamenti delle relazioni, di nuovi inizia e soluzioni definitive che durano pochissimo. Per ricordare solo alcune tappe, in meno di due anni ci sono state quattro elezioni, il distacco dalla destra prima di Lieberman, poi di Saar e Bennett, l’invenzione e poi la rottura dei bianco-azzurri, il governo di unità fra Natanyahu e Gantz miseramente fallito, il nuovo incredibile governo di sinistra-destra-centro sionisti-antisionisti che dopo sei mesi dalla sua nascita già traballa paurosamente… Non vi è nulla di strano in queste giravolte, la democrazia si distingue dalla dittature perché governi e maggioranze possono cambiare, i potenti perdono prima o poi i loro ruoli, le varie parti sociali sono legittimate a perseguire le loro convinzioni e i loro interessi – tutte cose che sappiamo benissimo anche in Italia. Come ha spiegato Churchill, è un pessimo sistema, pieno di difetti – solo che tutti gli altri sono molto peggio.
Adesso la scena politica israeliana si prepara a un nuovo colpo di scena annunciato ma non ancora definito, che riguarda l’ex primo ministro e ora capo dell’opposizione, Benjamin Netanyahu. Come si sa, la sua caduta dal governo è stata favorita da una serie di inchieste per corruzione e “abuso di fiducia” perseguite con grande determinazione dal procuratore generale Avichai Manderblit. Arrivate al dibattimento, le accuse hanno mostrato notevoli debolezze. Vi sono stati testimoni chiave dell’accusa che hanno in sostanza spiegato di essere stati obbligati dalla polizia con metodi pochissimo ortodossi a fare dichiarazioni contro Netanyahu, sono emerse carte che la pubblica accusa ha nascosto alla difesa contro la legge, resta il dubbio che si possa definire corruzione un discorso fra un politico e un editore su come migliorare la copertura stampa del governo, semplici sondaggi politici mai arrivati alla fase della trattativa pratica e in cui non è mai entrato in gioco il denaro.
Dunque l’accusa rischia di perdere il processo, ma Netanyahu rischia anche lui, perché è oggetto di una gigantesca campagna ostile politica e di stampa, che ha coinvolto profondamente il sistema legale. Se perdesse la causa, non dovrebbe mettere in conto solo un insuccesso professionale e politico, ma il carcere, la rovina. Bisogna aggiungere che con febbraio arriva al termine il mandato di Manderblit, che rischia di andare in pensione senza risultati; ma anche Netanyahu sa che dopo di lui dovra fare i conti con un procuratore provvisorio ancora più accanito perché ha ragioni personali di odio nei suoi confronti. Insomma, sembra che i tempi siano maturi per un accordo, quel “patteggiamento giudiziario” che è un tipico istituto della giustizia americana e in certi casi si usa anche in Italia: accusa e difesa si mettono d’accordo sulla definizione del reato e sulla pena, sottopongono l’accordo ai giudici che in genere lo approvano ponendo fine al processo. E’ dunque in corso una trattativa, per il momento informale, che può funzionare con bluff, indurimenti, aperture, interruzioni come per una compravendita. Questo è ciò che secondo la stampa israeliana sta accadendo fra i legali di Netanyahu (che a quanto pare spingono per il patteggiamento, mentre la famiglia vorrebbe continuare la battaglia giudiziaria fino alla fine) e la procura. E’ chiaro che Netanyahu non ha interesse a patteggiare un periodo in prigione, dove vorrebbero vederlo i suoi nemici. Manderblit vuole togliergli l’agibilità politica, ha dichiarato spesso che lo considera “un pericolo per la democrazia”. Il minimo dunque che pretenderà sono le dimissioni dal ruolo di leader dell’opposizione, capo del Likud, deputato. Ma per quanto tempo varrà questa interdizione? Che succede se Netanyahu, ancora molto amato dalla sua base, si ripresenta candidato alla presidenza del Likud e poi al ruolo di premier? Il procuratore generale, dice la stampa, vorrebbe fargli accettare una qualifica di “indegnità” che per legge comporta l’impossibilità di svolgere incarichi pubblici per sette anni, fino a quando Netanyahu ne avrà ottanta. La posta in gioco oggi sembra questa.
Accetterà Netanyahu di subire questa sconfitta e l’umiliazione conseguente? O sceglierà di combattere fino in fondo e attendere il rischio della sentenza? Non si sa. Quel che è chiaro è che se patteggiasse e uscisse dalla scena politica, si produrrebbe un terremoto nella politica israeliana. Bennett, Saar, Lieberman, si considerano ancora ideologicamente a destra e soprattutto lo è il loro elettorato. Si sono uniti alla sinistra solo per odio verso Netanyahu, con l’obiettivo esplicito di abbatterlo. Se egli non fosse più il leader del Likud, perché non riunirsi ai vecchi compagni di partito, a cui li lega tutto? Perché restare con l’estrema sinistra di Meretz, con gli arabi antisionisti di Ra’am, con la sinistra di Avodà e di Yesh Atid? Esiste alla Knesset e soprattutto nel paese una comoda maggioranza parlamentare di destra. Forse Bennett resisterebbe un po’ visto che con soli sei deputati fa il primo ministro e non potrebbe più aspirare a una carica del genere senza fare la copertura a destra di un governo che in sostanza è di sinistra. Ma la pressione dell’elettorato sarebbe troppo forte e dovrebbe cedere anche lui. Insomma si arriverebbe a un nuovo governo già in questa legislatura, qualcuno dice “prima di Pesach” cioè entro poche settimane. O alla peggio si andrebbe presto a nuove elezioni. Questo dice la logica. Ma la politica israeliana è come una fiction piena di colpi di scena- E magari ne potrebbe arrivare un altro.