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    Il gas di Israele: una risorsa strategica

    “L’unico posto del Medio Oriente dove non c’è il petrolio”

    “ Mosè ci ha fatto andare in giro quarant’anni nel deserto, per riuscire a portarci nell’unico posto del Medio Oriente dove non c’è petrolio!” Secondo Amos Oz e sua figlia Fania, questa battuta proverbiale si deve a Golda Meir. E in effetti per i primi sessant’anni della sua esistenza, fra gli svantaggi strategici di Israele – circondato da nemici, posto su una stretta striscia di terra che prima del lavoro dei pionieri era tutta arida o paludosa -, l’assenza di fonti energetiche è stato uno dei problemi principali, perché il petrolio e il gas dovevano arrivare dall’America, con i costi e i rischi strategici che ciò comportava.

     

    La scoperta

    Tutto è cambiato quando nel luglio 2010, l’impresa americana concessionaria Noble Energy ha annunciato che gli studi sismici indicavano che c’era una probabilità del 50% che il giacimento Leviatan contenesse gas naturale, con la potenziale dimensione della riserva stimata in 450 miliardi di metri cubi. Il giacimento di gas si trova a circa 130 chilometri  a ovest di Haifa in acque profonde 1.500 metri. Il pozzo di esplorazione iniziale, Leviathan 1, è stato perforato a una profondità di 5.170 metri. Poco prima era iniziata un po’ più a nord, l’esplorazione di un altro giacimento, Tamar, anch’esso molto ricco ma meno di Leviatan. Date le difficoltà tecniche, lo sfruttamento commerciale del gas è iniziato nel 2019. La riserva stimata complessiva è di 900 miliardi di metri cubi di gas, una cifra tanto importare da condurre il Paese alla guida dell’export di gas nella regione.

     

    Lo sfruttamento della risorsa

    Secondo le stime, il solo Leviatan garantirebbe i bisogni energetici interni di Israele per 40 anni. Ma il governo israeliano ha fatto molta attenzione a evitare che la ricchezza improvvisa dovuta al gas portasse l’economia israeliana sul sentiero pericoloso comune ai petro-stati: l’inflazione da eccesso di risorse che mette fuori mercato le altre produzioni e induce la tentazione di uno sviluppo basato solo sullo sfruttamento della risorsa naturale. Ha quindi programmato un uso moderato dei giacimenti e una vendita del gas con partner vicini e lontani, il che naturalmente ha importanti riflessi politici, oltre agli introiti economici. Con l’Egitto per esempio ha stretto già un accordo storico dal valore di 15 miliardi di dollari, che si sta trasformando con la prospettiva che l’Egitto (il quale ha a sua volta trovato importanti risorse di gas offshore, col giacimento Zohr gestito dall’Eni) diventi la base per la liquefazione e la vendita di gas all’Europa. Ma si pensa anche alla possibilità inversa, che cioè da Haifa parta per l’Europa sia il gas israeliano che quello egiziano. C’è stato anche un accordo di cessione con la Giordania. Con Cipro, che ha sua volta gas nelle sue acque territoriali, e con la Grecia, Israele ha concepito l’idea di un gasdotto “East Med”, che dovrebbe partire dai giacimenti israeliani, attraversare Cipro e Creta per arrivare in Puglia e poi rifornire l’Europa. Ma gli ostacoli tecnici sono notevoli e quelli politici ancora maggiori.

     

    La questione turca

    Un problema è come sempre la tentazione europea di boicottare in un modo o nell’altro Israele per favorire i palestinesi. Ma l’ostacolo maggiore è la Turchia, che anche a nome del suo stato fantoccio di Cipro Nord (frutto dell’invasione del 1983 e della successiva occupazione, non riconosciuto da nessun altro stato) rivendica diritti sulle acque territoriali di Cipro e sulle risorse sotterranee. Buona parte del riavvicinamento della Turchia a Israele degli ultimi anni è dovuto alla volontà turca di spartirsi con Israele le risorse appartenenti a Cipro (ma Israele ha lasciato cadere questa proposta) o almeno di indurre Israele a rinunciare a East Med per trasferire il gas all’Europa attraverso il suo territorio e non quello greco. Sulla base di un accordo con uno dei governi che si contendono la Libia, la Turchia ha però anche la pretesa di un possesso di tutto il braccio di mare (circa 1000 chilometri) che sta fra l’Anatolia a nord e la Cirenaica a sud, tagliando le zone marittime appartenenti a Israele, Grecia e Cipro. Il che certamente potrebbe creare problemi giuridici ma anche militari per East Med. Per il momento, la soluzione adottata è la liquefazione del gas e il trasporto per nave.

     

    La questione libanese

    Israele non ha solo Leviatan e Tamar. Ci sono dei giacimenti più piccoli, ma comunque consistenti a sud di Tamar, sempre a 150 chilometri dalla costa, che si chiamano Sarah e Mira, al momento non ancora sfruttati per difficoltà tecniche. E a nord ci sono Tanin e soprattutto Karish, quasi al confine col Libano. Il problema è che i confini marittimi fra i due stati in guerra non sono stati ancora ufficialmente tracciati. Le convenzioni internazionali dicono che sul mare si prolungano le frontiere terrestri sulla perpendicolare della linea di costa, ma le coste marine non sono mai rettilinee e tutto sta a vedere come si stabilisce esattamente questa linea: basta un cambiamento di pochi gradi per muovere il confine di parecchi chilometri al limite delle acque di “sfruttamento economico esclusivo”, cento chilometri più in là.

     

    La controversia su Karish

    Da anni è in corso una trattativa mediata dagli Stati Uniti. Israele ha proposto una linea che è stata approvata dall’Onu; il Libano ne ha controproposto una sua, naturalmente più meridionale e a lui più favorevole. Quando Israele ha iniziato a muoversi per sfruttare Karish, che è dentro il suo territorio anche secondo la proposta libanese, il Libano ha avanzato una nuova rivendicazione di una linea ancor più a sud, che comprende probabilmente parti di quel giacimento (ma non il punto attuale di perforazione). Israele ha ignorato questa nuova richiesta, le trattative si sono interrotte, e Hezbollah ha minacciato di colpire le piattaforme, che però sono difese da una versione marittima di Iron Dome. Se Hezbollah proverà ad attaccare i pozzi, ha ammonito Israele, sarà la guerra, che certo non farà bene al Libano. Il governo libanese ha accettato la mediazione americana, ma dato che Hezbollah risponde all’Iran e non al popolo libanese, non è impossibile un’avventura militare. Per il momento l’inviato americano è a Beirut e cerca di spiegare al governo libanese, il quale deve affrontare una crisi economica gravissima, che una soluzione pacifica è nel suo interesse perché aprirebbe la strada a profitti importanti.

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