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    Il dramma degli ostaggi israeliani: la disperazione dei parenti

    Israele entra nel terzo giorno di guerra con ogni intenzione di porre fine all’invasione di campo da parte di Hamas. Che dall’alba di sabato sta seminando panico e terrore, compiendo massacri a sangue freddo in territorio israeliano, in kibbutzim, moshavim e città come Sderot. Ancora ieri sera la municipalità del centro abitato più grande tra quelli più a ridosso della Striscia diramava un’allerta ai residenti per “sospetta infiltrazione di militanti”.

     

    Non solo morti, già oltre 700. E tra loro 34 poliziotti e 57 soldati. A generare ulteriore preoccupazione, umanamente e tatticamente, sono i dispersi e le persone fatte prigioniere dalle fazioni armate palestinesi. I numeri non sono ufficiali ma senz’altro sono indicativi. La Jihad islamica ne conferma 30 attualmente prigionieri a Gaza. Secondo fonti palestinesi che si erano espresse in precedenza, sono un centinaio. Sono civili e soldati di cui si sono persi i contatti una volta finiti in mano di Hamas. 

     

    Domenica, il gabinetto di sicurezza ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra. Israele ha adesso due necessità e due obiettivi: neutralizzare Hamas a lungo termine e riportare a casa i suoi concittadini. Di alcuni, è tristemente certo, da recuperare ci saranno solo i cadaveri. La seconda impresa rende più complicata la prima.

     

    Nelle comunità del sud del Paese, dove lo stress intermittente dei razzi sulla testa l’hanno messo nel conto ormai da anni, l’assalto armato di Hamas dentro casa, il fiato sul collo dei combattenti delle Brigate Al-Qassam, è stato un trauma inaudito. Le loro storie, i numeri di telefono, le fotografie di parenti e amici rapiti, rimbalzano sulle bacheche virtuali di chat in chat.

     

    “Mia moglie Doron Asher e le mie due figlie Raz Asher di 5 anni e Aviv Asher di 3 anni sono state prese come prigioniere di Hamas. Erano andate a fare visita a mia suocera, a Nir Oz. Anche lei e il marito sono stati catturati”, fa girare il messaggio Yoni Asher. “Più tardi le ho riconosciute in un video sui social. Erano nella Striscia di Gaza, nelle mani dei terroristi di Hamas.”

     

    Adva Adar, dalla sua casa nel Moshav Luzit, parla con i media internazionali nella speranza che la pressione mediatica intorno alla storia di sua nonna Yaffa, 85enne rapita e portata a Gaza, possa salvarla. O almeno smuovere le acque per ricevere sue notizie. L’anziana signora, che in video tristemente virali si vede portata in giro come un trofeo, segue una terapia farmacologica. “Senza le sue medicine – ha detto in lacrime la nipote – deve essere in preda a dolori atroci. Non sappiamo nemmeno se è ancora viva.” Dalle sue parole e dall’agitazione si capisce che ragazza è divorata dalla preoccupazione, e su quello vorrebbe concentrarsi. Ma non riesce a nascondere il senso di abbandono. Non da parte della comunità, che da un kibbutz all’altro ha attivato una rete di supporto. Ad essere accusate di incapacità sono le autorità locali e quelle nazionali. “Sono state assenti – ha ammesso Adva -. Ci sentiamo ignorati e abbiamo bisogno di ricevere supporto.” Yaffa Adar è tra i fondatori del kibbutz Nir Am. “Mia nonna credeva nel sionismo e in questo paese che l’ha abbandonata, in ostaggio”, si è sfogata la ragazza. “Nessuno parla con noi, nessuno ci dice nulla”, ha aggiunto. Il premier Netanyahu ha nominato il generale in pensione Gal Hirsch come coordinatore per i prigionieri e per i dispersi. E l’esercito ha istituito una unità di crisi.

     

    In un disperato appello, a cui Adva si aggrappa con scarsa convinzione, chiede ai miliziani di Hamas di mettersi una mano sulla coscienza. “I neonati, i bambini e gli anziani che avete rapito non hanno responsabilità. Rimandateli a casa.” Ma il segretario generale della Jihad islamica Ziad al-Nahala ha ribadito che le persone rapite “non verranno rimandate a casa se non in cambio del rilascio dei nostri prigionieri”. Ancora una volta, Israele si trova davanti a scelte estremamente difficili.

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