Come si arriva alle elezioni anticipate
Dopo la dichiarazione congiunta del primo ministro Naftali Bennett e del suo sostituto designato (col titolo di “primo ministro alternativo”), Yair Lapid, in cui dicevano di aver stabilito che il loro governo non poteva durare e che quindi per evitare una mozione di sfiducia avevano deciso di sciogliere la Knesset e di andare a nuove elezioni, si è messa in moto una macchina politica e legislativa molto complessa. Dal punto di vista legale, a differenza di quel che succede in Italia, dove è il presidente della Repubblica a sciogliere le camere se ce n’è la necessità, o da paesi come gli Usa, dove nessuno può sciogliere il Congresso, in Israele la Knesset stessa può stabilire la propria dissoluzione, ma per farlo ha bisogno di approvare una legge apposita. Dato che essa è un parlamento monocamerale, per evitare colpi di testa si è deciso alla fondazione dello Stato che per approvare una legge sono necessarie tre diverse votazioni dell’assemblea. Dunque lo scioglimento non è un atto singolo, ma un processo che richiede una decina di giorni. Al momento è stata fatta la prima votazione della legge voluta da Bennett e Lapid, che è passata all’unanimità dei presenti (110 sui 120 membri della Knesset) e si prevede che le altre due votazioni potranno essere svolte entro metà della settimana prossima. Se tutto andrà come previsto da Bennett, dunque, nei primi giorni di luglio la Knesset sarà sciolta, Lapid diventerà primo ministro al posto suo, e il paese andrà alle elezioni fra fine ottobre e inizio novembre.
E come forse è possibile evitarle
Nel frattempo le manovre politiche non si fermano. L’opinione pubblica è in genere contraria alle nuove elezioni, che sarebbero le quinte in meno di quattro anni. I parlamentari lo sono anche di più, perché molti di loro rischiano di non rientrare. Inoltre i sondaggi dicono che di nuovo la destra vicina a Netanyahu avrebbe un notevole vantaggio, ma non la maggioranza assoluta (dato che vi sono i deputati antisionisti soprattutto arabi, che stanno per principio all’opposizione). Per formare un governo ci sarebbe bisogno che alcuni dei partiti di destra e di centro schierati contro Netanyahu superassero il loro rifiuto di stare a un governo con lui. E’ una situazione simile all’attuale. E dunque perché non fare questo accordo adesso? In questo senso si muove naturalmente il Likud di Netanyahu e anche i partiti religiosi, che hanno subito molti provvedimenti a loro sgraditi dal governo Bennett. Ma si danno anche molto da fare i transfughi della vecchia coalizione, cioè i fuoriusciti dal partito di Bennett, e anche alcuni che gli erano rimasti fedeli ma non sono disposti a seguirlo nella probabile sconfitta elettorale, come il Ministro degli Interni Ayelet Shaked.
Le difficoltà
Anche però se tutto il partito di Bennett votasse con il blocco di Netanyahu (lui escluso, probabilmente, vista la sua scelta di elezioni a cui, dicono voci insistenti, non si ricandiderà), non basterebbe a fare la maggioranza. C’è bisogno almeno di un altro partito. Potrebbero in teoria essere disponibili quelli di Libermann, che ha una forte avversione personale nei confronti di Natanyahu, e ha provocato la prima crisi di questo ciclo; di Gantz, che ha provato ad allearsi con Netanyahu un anno e mezzo fa e poi ha rotto con lui sentendosi imbrogliato; e di Sa’ar, che era il numero due di Netanyahu nel Likud e ne è uscito prima delle ultima elezioni, perché non accettava il suo ruolo subordinato. Difficile dunque che questi capipartito cambino l’atteggiamento di rifiuto per Netanyahu che ha portato alla costituzione dell’eterogeneo e fragilissimo governo Bennett-Lapid. Ma nella politica israeliana niente è impossibile: magari qualcuno potrebbe cambiare idea, o dei singoli parlamentari potrebbero decidere diversamente dai loro leader. Le trattative in questi giorni sono frenetiche, Bibi Netanyahu ha dichiarato di essere disposto a rinunciare ad alcune pretese importanti (per esempio al Ministero della Giustizia). E’ probabile che una risposta definitiva si potrà avere solamente all’ultimo momento, con la votazione della terza lettura della legge di scioglimento, o la presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva col nome del nuovo primo ministro, firmata da 61 deputati.
Il quadro internazionale
Nel frattempo però la politica internazionale non attende: c’è la guerra in Ucraina, che richiede decisioni, per Israele c’è soprattutto quella con l’Iran, che potrebbe dover portare presto al tentativo di distruggere l’armamento nucleare iraniano in via di completamento. Ci sono i patti di Abramo da completare e magari da estendere all’Arabia Saudita. C’è il terrorismo, in questo momento per fortuna in fase di calo, ma certo non sparito; c’è la crisi dell’Autorità Palestinese, con Abbas sempre più debole e una lotta per la successione che potrebbe esplodere in ogni momento anche sul piano militare; c’è la trattativa per i giacimenti di gas con il Libano, e tanti altri problemi da affrontare, da Hamas al Covid. A metà luglio è confermata la visita di Biden, che certamente si propone di mettere sotto pressione Israele sull’accordo con l’Iran e anche di riportare in vita la vecchia linea diplomatica che privilegiava l’accordo dell’Autorità Palestinese sui rapporti coi paesi arabi. Insomma, la carne al fuoco è tantissima e la crisi attuale influirà certamente sul modo in cui Israele la tratterà. Non sarà certo la stessa cosa se a discutere con Biden sarà Lapid o Netanyahu. Ne sapremo di più fra qualche giorno.