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    GERUSALEMME. SE I PALESTINESI VOGLIONO TRATTARE, DEVONO GARANTIRE PACE E DEMOCRAZIA

    Il Console Generale d’Italia a Gerusalemme, Giuseppe Fedele, in occasione della Festa della Repubblica Italiana (2 giugno 2020) ha scritto: “continuiamo a sostenere le istituzioni dell’Autorità palestinese in vista della creazione di uno Stato palestinese indipendente e democratico, che viva in pace e sicurezza al fianco dello Stato di Israele, nell’ambito di una soluzione negoziata del conflitto che preservi lo status di Gerusalemme quale capitale condivisa dei due Stati”. Ne consegue che, a nostro fallibile avviso, per il consolato italiano non è più valida la Risoluzione ONU sulla Partizione, del novembre 1947, accettata da Israele ma rigettata dal mondo arabo, la quale stabiliva che “La città di Gerusalemme sarà istituita come un corpus separatum sotto uno speciale regime internazionale e sarà amministrata dalle Nazioni Unite. Il consiglio di amministrazione fiduciaria è designato per adempiere alle responsabilità dell’autorità amministrativa per conto delle Nazioni Unite”. 

    Il consolato italiano, sempre a nostro fallibile avviso, considera non più valida tale disposizione ma, a questo punto, quale sarebbe la norma in vigore, ammesso che ve ne sia una? 

    Sul piano internazionale, nel 1947/48, non fu proclamato alcuno Stato arabo ma, al contrario, la Giordania assieme ad altri Stati arabi, attaccò Israele e s’appropriò di Gerusalemme Est. Tale appropriazione de facto divenne de jure con una decisione di dignitari arabi d’accordo col Re giordano. Indi, nel giro di due decenni la Giordania (1967) attaccò anche Gerusalemme ovest, venendo sconfitta e perdendo anche l’Est (cfr. Ruth Lapidoth, Jerusalem: Some Legal Issues The Jerusalem Institute for Israel Studies, 2011 (reprint 2008), p. 13).

    L’osservazione del Console non solo è di grande acume, ma è anche foriera di positivi sviluppi nella via per la pace. Asserendo che Gerusalemme dovrebbe essere capitale condivisa dei futuri due Stati, egli ammette expressis verbis la legittimità della giurisdizione israeliana sulla città. Se io e il dott. Fedele abitassimo nello stesso condominio, sicuramente egli non sosterrebbe che la mia presenza sia arbitraria, che mai e poi mai potrei mettere il mio nome nella cassetta delle lettere e nella porta di casa. Meno che meno egli sosterrebbe che le lettere mi debbano essere recapitate nella casa della vecchia zia, che abita a Velletri. Se a Velletri sostituissimo Tel Aviv, le cose peggiorerebbero, non dal punto di vista di chi scrive, bensì dal punto di vista dell’Italia, che bombardò Tel Aviv il 9 settembre 1940 uccidendo 137 persone. Tel Aviv non era un obiettivo strategico né vi erano istallazioni militari, ma soltanto civili. Haya Chessner, una fanciulla all’epoca, ricorda: “eravamo al Cinema Esther nella piazza centrale di Dizengoff. La proiezione iniziò con cartoni di Topolino e stavamo tutti ridendo, le luci si accesero e udimmo le prime esplosioni in lontananza”. Se le truppe tedesche ed italiane non fossero state fermate dagli inglesi ad El Alamein nel 1942, i morti non sarebbero stati solo 137. Tel Aviv, insomma, non sembrerebbe il posto giusto per impiantarvi una sede diplomatica: meglio Gerusalemme.

    A suo tempo, Olmert aveva proposto ad Abbas, di dividere Gerusalemme in quartieri controllati da Israele e Palestina e di abdicare alla sovranità israeliana sul Monte del Tempio e sull’intera Città Vecchia; vedi https://www.timesofisrael.com/hand-drawn-map-shows-what-olmert-offered-for-peace/  

    Poiché non possediamo la verità, abbiamo sopra segnalato la nostra fonte, ma certamente non farebbe male a nessuno cercare di approfondire l’argomento su fonti minimamente affidabili.  

    Quanto al giusto auspicio dell’avvento della democrazia, non si può che essere d’accordo col Console d’Italia, anzi, sarebbe da domandarsi perché la democrazia debba rimandarsi nel tempo, quando la si potrebbe avere subito. Perché dopo sì e prima no?

    La ragione di quest’osservazione risiede nella constatazione che le intese, e quindi la pace, sono più facili da raggiungere quando si condividono gli stessi valori che quando si hanno in comune gli stessi disvalori: non è impossibile che le dittature guerreggino fra di loro, mentre è pressoché utopistico uno scenario in cui due democrazie si facciano la guerra.

    La democrazia è stata un espediente retorico, ed il Console italiano è troppo intelligente per non sapere che il suo riferimento è tutt’al più un auspicio, che sicuramente gli fa onore. Dopotutto, la Dichiarazione d’Indipendenza americana comporta il perseguimento della felicità (pursuit of happiness) ossia uno scopo lodevole, nondimeno complesso. Sennonché, mentre si può vivere in pace senza essere felici, è impossibile oggi vivere in pace senza democrazia, e questa consapevolezza sicuramente rientra nel bagaglio di profonda saggezza del Console. Così come gli Amici del Ministero Affari Esteri (cui ho fatto spesso della consulenza ed i cui Capi del Contenzioso Diplomatico, Luigi Ferrari Bravo ed Umberto Leanza, mi onorarono della prefazione a due miei volumi) sanno che le conseguenze di una serie lunga di rifiuti impingono sui fatti, nondimeno sul diritto.

    Probabilmente, l’onda lunga del totalitarismo che distrusse l’Europa proietta ancora in modo quasi subliminale la sua ombra su taluni mass media, laddove il concetto di democrazia viene ad assumere, a torto, un significato diverso da quello della democrazia rappresentativa, basata sui diritti e doveri. Perché una democrazia funzioni, si considera che sia indispensabile un tasso minimo di cultura, di benessere e, aggiungiamo, di mass media affidabili, che forniscano chiavi di lettura non limitate alla ricerca del solito colpevole, ma che creino generazioni di donne e uomini liberi dal bisogno e dall’ignoranza.

    La pace non si raggiunge soltanto con un trattato, anche se un trattato è indispensabile, ma con la preclusione dei discorsi di odio, la quale preclusione è ormai inserita negli ordinamenti giuridici delle maggiori democrazie.

    Come abbiamo già detto, le Comunità ebraiche non sono partiti politici e quindi non possono convogliare o aderire a qualsivoglia pensiero, unico o poliedrico che sia. Ciò che potrebbero ragionevolmente chiedere è che, per poter sperare in una pace mediorientale degna di quel nome, anziché sostenere in modo convinto che si è per la soluzione di due Stati democratici che convivano pacificamente, si prenda atto, alla luce del principio di realtà, della necessità di un’accettazione reciproca in un clima di eguaglianza. A tutto pretendere, si potrebbe chiedere che le parti cessino di demonizzarsi a vicenda, se non per profonda convinzione, quanto meno per un prurito collegato all’eleganza. In questo senso, un grande ruolo spetterà ai pubblici poteri coi quali si ha il privilegio d’interloquire, laddove decidessero, accogliendo le richieste unanimi della Camera dei Deputati italiana, di uniformarsi alle soluzioni adottate dai grandi Paesi europei per la difesa dei diritti delle minoranze. In tal senso, una linea sinuosa, col tempo, finirebbe per rivelarsi per quello che è; non mancherà l’occasione di dissipare ogni equivoco, perché l’ebraismo italiano – ed in questo senso non mancano le pronunce ufficiali – merita che gli si parli con un linguaggio all’altezza dei quattro Premi Nobel su venti che gli ebrei hanno dato all’Italia. Le visite alle Sinagoga vanno fatte anche col cuore ed un cuore non può che essere sincero. Basterebbe, peraltro, seguire l’esempio del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, nei cui occhi e nelle cui espressioni abbiamo sempre trovato l’intelligenza dell’empatia, in virtù di una personalità che, per tutti gli italiani, di qualsiasi fede religiosa e politica, è una fonte d’ispirazione e, nei momenti più difficili, di consolazione e speranza.

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