Abraham Diskin è uno dei più noti e stimati politologi israeliani. Già direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Ebraica di Gerusalemme, presidente dell’Associazione Israeliana di Scienze Politiche, professore ospite di molte università straniere, ha lavorato anche per il Ministero degli Esteri e la Commissione Elettorale Centrale. Con lui parliamo del risultato delle elezioni appena svolte in Israele e delle prospettive politiche che ne derivano per lo Stato Ebraico.
Professore, chi ha vinto le elezioni? Sui giornali abbiamo letto rivendicazioni assai diverse.
“Se fossimo in una situazione normale, non avrei dubbi a dire che ha vinto la destra o se vogliamo quello schieramento che va dal centro-destra fino alla destra estrema. I conti si possono fare in maniera un po’ diversa a seconda di come si considerano collocati esattamente i partiti, ma fra destra e sinistra ci sono almeno 25 seggi di differenza, sul totale di 120 della Knesset, la camera unica del parlamento israeliano. Sei elettori su dieci votano per la destra. Ed è chiarissimo che il partito cardine dello schieramento politico israeliano è il Likud, che ha quasi il doppio dei voti del suo concorrente più vicino, il partito di centro-sinistra Yesh Atid.”
Se Israele fosse in una situazione normale. E invece…
“Invece lo scontro principale in queste elezioni e anche nelle altre tre che le hanno precedute negli ultimi due anni non è stato la divisione fra destra e sinistra, ma quella fra coloro che vogliono Bibi Netanyahu continuare come primo ministro e quelli che vogliono ‘qualunque cosa, salvo Netanyahu’. E costoro hanno i numeri per annullare la maggioranza di destra. Non sono probabilmente in grado di mettersi d’accordo fra loro, di costituire un governo, perché hanno idee del tutto differenti, ma costitiscono una maggioranza di blocco efficace. Per questa ragione abbiamo avuto elezioni a ripetizione in questi due anni”
Perché vogliono abbattere Netanyahu anche quelli che hanno idee simili a lui?
“È diventata una questione personale, che sorpassa la tradizionale distinzione fra destra e sinistra. Gideon Saar, per esempio, è fuoriuscito dal Likud ed è senza dubbio un uomo di destra, su molte questioni più a destra di Netanyahu. Ma sarebbe disposto a fare quasi qualunque alleanza per non avere Netanyahu premier.”
Perché?
“Sono questioni personali, lo ripeto, molto cariche di emotività. Netanyahu sa essere molto amabile, se vuole. Ma ha spesso umiliato quelli che considera suoi avversari, non solo Saar, ma anche Lieberman e Bennett e Gantz. Tende a pensare che chiunque possa avere l’ambizione di occupare il suo posto sia un nemico da isolare e da abbattere. Inoltre ha un complesso di superiorità, non li considera suoi pari, li umilia continuamente, soprattutto quelli che gli sono più vicini. Questo atteggiamento provoca molto rancore, vera e propria avversione. E lui non fa nulla per dissipare questi sentimenti. So con certezza che nelle settimane scorse qualcuno gli aveva consigliato di cercare di fare la pace con i leader della destra che gli sono ostili, di chiedere scusa per i suoi eccessi, in modo da rendere possibile una riconciliazione. Gli avevano consigliato di fare un gesto non prima delle elezioni, perché avrebbero potuto usare questo fatto contro di lui. E neppure dopo perché sarebbe stato inutile a risultato uscito, ma il giorno stesso delle elezioni. Sono sicuro che essendo amabile come lui sa essere, avrebbe recuperato un rapporto con i suoi nemici. Però lui non l’ha fatto. E adesso è tardi.”
Come finirà?
“Molti dicono che ci sarà un altro turno elettorale, ma io non credo, perché la gente è stufa e Israele non può più permettersi questo blocco del governo, che rimanda tutte le decisioni importanti. Forse proprio questa stanchezza potrà diventare un’occasione per Saar e Lieberman per uscire dal vicolo cieco dove si sono cacciati senza risultati. Se vorranno potranno dire: sì avevamo promesso agli elettori ‘qualunque cosa salvo Netanyahu’; ma la situazione è troppo grave, il pubblico non ne può più e per spirito patriottico ci sacrifichiamo e entriamo al governo, magari ottenendo cariche importanti.”
Ma ci sono anche le accuse giudiziarie contro Netanyahu.
“Se fosse stato disposto a patteggiare l’abbandono della politica, se la sarebbe cavato con poco: magari una multa su un’infrazione minore, come è accaduto a sua moglie. Forse finirà così. Ma finché è primo ministro gli faranno la guerra. Io sono da sempre molto favorevole a una magistratura forte, a una Corte Suprema che tutela i cittadini dal potere. Ma in questi anni si è visto che la Corte è andata al di là dei suoi limiti naturali, ha approfittato del vuoto politico per prendere un potere che non le spetta. Bisogna tornare a una corretta distribuzione dei compiti fra i poteri dello Stato.”
Alcuni dicono che lo stallo politico israeliano è colpa del sistema elettorale proporzionale.
“Io non la penso così. In una società molto complessa come quella israeliana il proporzionale è fondamentale perché tutti si sentano rappresentati. In passato il sistema elettorale ha funzionato bene e anche oggi, se ci potesse essere una forzatura maggioritaria e ne uscisse un governo appoggiato solo da una maggioranza relativa di elettori, la tensione sarebbe enorme.”
C’è un fatto interessante in queste elezioni, la presenza di un partito arabo che si è staccato dal solito atteggiamento di opposizione antisionista e si è detto disposto a entrare nella maggioranza, purché gli interessi dei suoi elettori arabi siano meglio tutelati.
“Sì, l’aspetto più strano è che si tratta di un partito religioso islamico. Ma non è una novità assoluta. Già nei primi decenni dello Stato di Israele c’erano partiti arabi a favore del governo. E i partiti islamici, fra gli arabi israeliani, sono spesso moderati. Certo è un cambiamento molto interessante, che può modificare il quadro politico.”
Lei dunque è ottimista?
“Di carattere sono piuttosto pessimista. Ma penso che Israele, dovendo fronteggiare nemici molto pericolosi, non possa permettersi la paralisi. Queste elezioni potrebbero essere la volta buona per avere un governo pienamente funzionante, che duri alcuni anni.”