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    ISRAELE

    Egitto e Turchia: nuovi (e vecchi) pericoli per Israele

    Al di là del fronte iraniano
    La guerra che il fronte terrorista guidato dall’Iran ha lanciato contro lo stato ebraico il 7 ottobre del 23 è lungi dall’essere terminata, ma Israele ne ha già rovesciato gli equilibri con la distruzione di molte delle forze militari di Hamas e Hezbollah e della difesa antiaerea dello stesso Iran. Ma mentre ancora bisogna finire di piegare questi nemici, e non sarà un lavoro né breve né facile, altri pericoli si affacciano, altre minacce vengono proclamate apertamente. Due sono quelli principali. La prima è la Turchia islamista di Erdogan, affiliata alla Fratellanza Musulmana come Hamas. Da vent’anni almeno, ma oggi più che mai si tratta di un nemico pericoloso, capace di usare ogni occasione per cercare di danneggiare Israele, dalla “flottiglia” 2010 con la Mavi Marmara carica di “innocente” calcestruzzo per Gaza, al finanziamento degli attivisti islamici a Gerusalemme. Oltre che islamista, Erdogan è anche neo-ottomano, impegnato a riportare l’impero turco nei confini dell’Ottocento e anche più in là. Israele per lui in fondo non è Palestina, ma una parte dei domini ottomani che devono essere restituiti alla Turchia: “Gerusalemme è nostra” come dice spesso. Tutto questo si sa da tempo, ma ora il nuovo regime siriano è dipendente dalla Turchia come quello precedente lo era dall’Iran. Esiste cioè una zona di potenziale contatto e di frizione fra Turchia e Israele, che potrebbe prima o poi innescare un conflitto militare con un esercito potente e ben addestrato come quello turco. Già ora secondo il ministro degli esteri israeliano Sa’ar, la Turchia sta facendo da ponte per i finanziamenti e gli armamenti che l’Iran invia per ricostituire la potenza di Hezbollah.

    Le polemiche dell’Egitto contro Israele
    Il pericolo più evidente però oggi è l’Egitto, nemico di tante guerre e primo paese arabo a fare la pace con Israele. Benché faccia parte del gruppetto dei “mediatori” fra Israele e Hamas, in questo anno e mezzo di guerra l’Egitto ha spesso espresso ostilità e minacce nei confronti di Israele, riecheggiando la propaganda terrorista. Ha propagato la bufala del genocidio, ha denunciato come un crimine umanitario la liberazione da Hamas di Rafah (dove è stato trovato Sinwar), ha rifiutato di accettare la presenza israeliana nell’asse Filadelfi, minacciando addirittura di intervenirvi militarmente, si è presentato come protettore dei gazawi, pur rifiutando categoricamente di accettarli sul suo territorio. La scoperta di numerosi tunnel attivi sotto il confine, da cui probabilmente i terroristi hanno ricevuto armi, munizioni, materiali per la guerra e per le loro fortificazioni sotterranee ha fatto capire che la dirigenza egiziana (probabilmente addirittura un figlio del dittatore Al-Sisi) era profondamente implicata nei traffici che hanno preparato il 7 ottobre, per ragioni di corruzione, prima che di politica. L’Egitto è stato poi in prima linea per opporsi alle soluzioni del problema di Gaza, per esempio di recente ha promosso una conferenza dei paesi arabi per contrastare la proposta di Trump.

    Il problema militare
    Approfittando dei disordini intorno a Gaza, da anni ormai l’esercito egiziano ha ripreso a schierarsi nel Sinai, contro il trattato di pace di Camp David fra Sadat e Begin. Di recente queste violazioni sono diventate più gravi, nel Sinai sono state costruite due grandi basi militari, sono state schierate a poca distanza dal confine israeliano alcune centinaia di carri armati, gli aeroporti militari sono stati ampliati. Del resto da anni è in corso un forte riarmo delle forze armate egiziane, con l’acquisto di carri, missili, aerei avanzati di provenienza cinese, con un costo fra l’altro assai difficilmente compatibile con lo stato disastroso dell’economia egiziana. È vero che l’Egitto ha dei contenziosi molto gravi con i suoi vicini meridionali Sudan e Etiopia per questioni di divisione delle acque del Nilo e rivalità territoriali, ma le nuove armi sono state schierate al confine con Israele, non al sud. Negli scorsi giorni sono circolate in rete foto e filmati di manovre di carri e di aerei leggeri molto simili a quelli usati da Hamas nel suo attacco del 7 ottobre (rispetto a cui è difficile non chiedersi chi glieli ha forniti se non proprio l’Egitto). Sono girati anche dei video d’animazione con missili egiziani che distruggono la centrale nucleare di Dimona; politici egiziani hanno pubblicamente proclamato il prossimo arrivo della loro armate a Tel Aviv in 24 ore di combattimenti.

    Il silenzio di Israele
    Di fronte a tutte queste violazioni e minacce, Israele non ha reagito fino a una protesta dell’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Yechiel Leiter indirizzata al governo americano in quanto garante degli accordi di Camp David: un atto comunque molto misurato e diplomatico, che non ha coinvolto le alte cariche dello Stato, né si è tradotto in movimenti di truppe o preparazione di mosse militari. Chi ricorda l’attacco egiziano di sorpresa a ottobre del 1973 che iniziò la guerra del Kippur (e sono molti in Israele) teme giustamente che governo ed esercito israeliano possano essere vittime di un’analoga distrazione.

    Il calcolo israeliano
    Quello dell’attacco a tradimento è un timore non irragionevole; ma probabilmente l’atteggiamento israeliano deriva da un calcolo attento. Lo si può riassumere così: le forze armate egiziane, benché molto rafforzate, sono assai inferiori a quelle israeliane, innanzitutto nel fattore decisivo del dominio dell’aria. L’Egitto dipende da Israele oggi per una serie di forniture (innanzitutto il gas) e vive di aiuti americani e sauditi che certo gli sarebbero ritirati in caso di attacco non giustificato a Israele. Lo Stato ebraico ha bisogno di isolare il più possibile l’asse del male promosso dall’Iran e non ha certamente interessa a spingergli vicino l’Egitto aggiungendo un ottavo fronte ai sette su cui già combatte. D’altro canto l’Egitto non ha tradizioni di amicizia con l’Iran ed è il più danneggiato dalla pirateria degli Houti che, guidati e armati dall’Iran, hanno dimezzato il traffico attraverso il Mar Rosso e dunque attraverso il Canale di Suez: una fonte essenziale del suo bilancio. Infine non avrebbe nessun senso militare unirsi adesso a uno schieramento sconfitto sul campo (Hamas e Hezbollah) quando l’esercito israeliano riceve tutti i rifornimenti e l’appoggio che gli serve grazia a Trump.

    La scommessa di Al-Sisi
    Bisogna insomma supporre che le mosse di Al-Sisi siano propagandistiche e dirette al suo difficile pubblico interno. Non vi è simpatia da parte sua e del suo gruppo per Gaza, neppure la compassione che indurrebbe a ospitare qualcuna delle “vittime della guerra”. Al contrario Hamas è un braccio di quella Fratellanza Musulmana nemica di Nasser e del nazionalismo egiziano che ha brevemente governato il paese dopo la “primavera araba” ed è stata estromessa proprio da Al-Sisi con un colpo di stato nel 2014. Si tratta insomma dei peggiori nemici del regime che però hanno ancora una base popolare, soprattutto sulla retorica anti-israeliana, che non è stata affatto bloccata dalla “pace fredda” conservata per quarant’anni dopo la morte di Sadat. E probabile che Al-Sisi agisca per compiacere la sua piazza e provare a recuperare popolarità nel mondo arabo fra coloro -e sono tanti – che non sopportano gli ebrei nonostante le convenienze economiche e politiche. Ma solo il futuro ci potrà dire se questa è davvero la sua scommessa.

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