Sembra proprio che Bibi Netanyahu
ce l’abbia fatta un’altra volta. Gli exit poll pubblicati subito dopo la
chiusura delle urne davano al Likud un risultato buono ma non entusiasmante (30
seggi su 120 della Knesset) e alla sua coalizione appena la maggioranza (61/62
seggi), soprattutto grazie all’exploit dei sionisti religiosi (Smotrich e Ben Gvir).
I risultati reali, pubblicati progressivamente dalla commissione elettorale,
segnano una vittoria molto più ampia. Alle 8.30, ora di Israele, con oltre il
70% dei voti contati, al Likud erano assegnati 32 seggi, sempre 14 ai sionisti
religiosi, 12 seggi al partito sefardita religioso Shaas, 9 agli askenaziti,
per un totale di 67 seggi su 120 alla coalizione di Bibi. A Lapid erano
assegnati 23 seggi, 12 a Gantz, 5 a Lieberman e al partito arabo Ra’am parte
della precedente coalizione, 4 ai Laboristi, per un totale di 49 seggi. Alla
lista araba unita, che non partecipa alle coalizioni della Knesset, erano
attribuiti 4 seggi. Non passavano la barriera di ingresso il partito di estrema
sinistra Meretz e la lista araba vicina al terrorismo Balad.
Queste esclusioni sono determinanti per la
notevole vittoria di Netanyahu; se questi partiti che sono appena sotto il
limite del 3,25% necessario per entrare alla Knesset recuperassero quel che
manca loro con gli ultimi voti da contare, si tornerebbe probabilmente a una
maggioranza di destra, che è tale anche in termini di percentuali di votanti,
ma più limitata. Quella che si profila è dunque una coalizione di nuovo guidata
da Bibi Netanyahu, in cui avranno molto peso i leader del sionismo religioso e
dei partiti che esprimono le opinioni e il modo di vita dei charedim (i
“timorati” del Cielo), che la stampa tende a chiamare ultraortodossi. Non è
dunque solo una scelta sulla persona di Netanyahu, ma sulla definizione di
Israele come stato della nazione ebraica.