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    ISRAELE

    Dalla distruzione alla rinascita: insieme per sostenere il kibbutz Holit

    Situato nel sud-ovest di Israele, a poco più di un chilometro dal confine con Gaza, il kibbutz Holit è stato un obiettivo nel mirino di Hamas durante la tragica giornata del 7 ottobre. Il kibbutz è stato fondato nel 1977 nel Sinai ed è stato successivamente trasferito nel Negev come parte del trattato di pace tra Egitto e Israele del 1982.
    Il kibbutz Holit, tuttavia, non è solo una riunione volontaria di lavoratori: è bellezza, è famiglia, è casa. O almeno è così che lo ricordano Giulia Gay e Micaela Di Consiglio, le quali hanno trovato nel kibbutz un luogo pieno d’amore, dove si è circondati da persone che ti vogliono bene e a cui si vuol bene. Ed è proprio questo amore che ha permesso alla popolazione, nonostante le varie difficoltà, di arrivare ad essere composta da 217 abitanti, per un totale di 53 famiglie. Poi il massacro di Hamas ha sconvolto la comunità.
    “Ci siamo svegliati alle 6:30 a causa degli allarmi e dei missili. Abbiamo ricevuto messaggi sconcertati. Paura, terrore, sconforto. Aspettavamo risposte da persone ormai morte. Ci sentivamo in colpa per essere ancora vivi” ha spiegato Giulia Temin.
    Il racconto di Giulia è una delle tante testimonianze venute alla luce nell’incontro tenutosi a Roma, organizzato dalla Hashomer Hatzair Roma e dal Bnei Akiva Roma, in collaborazione con il Keren Kaymeth l’Israel Italia e Pitigliani e con il patrocinio della Comunità Ebraica di Roma e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
    Un video raccoglie le altre documentazioni di coloro che abitavano nel kibbutz e che, con dolore, raccontano la propria storia. Una bambina di 7 anni chiusa nell’armadio mentre i genitori venivano trucidati; un ragazzo di 16 anni scrive in un messaggio “mamma e papà sono morti, mi dispiace”, con il cadavere della madre ancora sopra di lui; un sopravvissuto alla Shoah e il suo badante brutalmente uccisi dai miliziani di Hamas.
    Infine, la testimonianza di Kish Azoulay, membro della sicurezza all’interno del kibbutz. Kish racconta del feroce attacco terroristico e di come, insieme al capo della sicurezza, ha cercato di capire cosa stesse avvenendo e come fronteggiare la situazione. “Già dalle 6:30 abbiamo cercato di capire quale fosse l’emergenza, ma avevamo capito fosse qualcosa di diverso dal solito per la quantità di missili lanciati. Due minuti dopo ci hanno sparato addosso”. L’ordine per le famiglie era quello di chiudersi nel maamad, camera di sicurezza, e l’idea era quella di dividersi, sparare per far sembrare che ci fossero più gruppi armati e nella speranza che arrivasse l’esercito. “Avi, capo della sicurezza, è andato da una parte, io dall’altra, ritrovandomi così in un fuoco incrociato. Ho cercato di dare un ordine di sicurezza, ma Avi non rispondeva più e quindi ho capito che gli era successo qualcosa”. C’erano altri due membri del gruppo di sicurezza – continua Kish – che, però, erano chiusi in casa, circondati da 15/20 terroristi e che, dunque, non riuscivano ad aiutare gli altri. “Ero rimasto solo in mezzo a molte unità armate, ho iniziato a muovermi secondo un tipo diverso di attività militare, combattevo solo, nascondendomi tra i cespugli e sparando ai terroristi”. E ancora “ogni tanto cercavo anche di tornare a casa da mia moglie. Ho capito che i terroristi avevano riconosciuto la mia casa come un luogo da attaccare, sono riuscito a entrare in contatto con i volontari dell’esercito e della polizia, per cercare di mettere in salvo mia moglie e per avere poi le forze di continuare a salvare le altre famiglie”.
    Alle 11 di sera l’ultima famiglia è stata portata fuori dal kibbutz. C’erano due persone che mancavano all’appello, spiega Kish, il quale ha deciso di rimanere finché queste ultime non fossero state ritrovate, il che è avvenuto mercoledì, giorno in cui l’esercito ha ritrovato i cadaveri e ha ripreso il controllo della zona.
    I membri del kibbutz, ora, si trovano nell’hotel all’interno del kibbutz Ein Gedi. Le persone hanno perso tante cose, ma anche e soprattutto il luogo in cui si sentivano a casa. Le prime due settimane la comunità non esisteva perché doveva superare il trauma, poi ha iniziato a cercare dei modi per ricostruire Holit. Ricostruirlo sarà possibile anche grazie al progetto del KKL “il cuore verde del kibbutz Holit”.
    Holit, letteralmente, significa duna, tutto quello che c’era prima del 7 ottobre era nato dalla sabbia e, come un miracolo, verrà ricostruito. “Holit è il nostro obiettivo”. Ed è questo il messaggio che si è cercato di lanciare durante l’incontro: andare oltre la tragedia per costruire un nuovo futuro, insieme. Questa è la speranza di tutti gli ex abitanti del kibbutz, della direttrice del KKL, di Giulia Temin, dell’ambasciatore israeliano Alon Bar, dei rispettivi shaliach del Bnei Akiva e della Hashomer Hatzair e di tutto l’ebraismo italiano.

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