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Le prospettiva a Gaza
La guerra iniziata con la strage del 7 ottobre era stata pensata dai suoi ideatori (dietro Hamas, innanzitutto l’Iran) per distruggere Israele. E invece la reazione israeliana sta smantellando ciò che presuntuosamente essi chiamavano “l’asse della resistenza” e modificando profondamente l’assetto strategico del Medio Oriente. Al sud, a Gaza, l’azione israeliana non è stata ancora conclusiva per il freno che l’amministrazione Biden vi ha opposto aderendo alle bugie demagogiche del “genocidio”, della “carestia”, della “crisi umanitaria”. Siamo ora a un punto cruciale, con la scadenza della prima fase della tregua conclusa a dicembre anche su pressione dell’entrante amministrazione Trump. Esaurito lo scambio di una trentina degli israeliani rapiti, fra vivi e defunti, con un migliaio di terroristi condannati anche per reati gravissimi, ora la seconda fase prevederebbe il rilascio di tutti gli altri sequestrati contro la scarcerazione di altre migliaia di pericolosi pregiudicati e soprattutto l’abbandono da parte dell’esercito israeliano della Striscia, incluso il confine con l’Egitto, lasciando così ai terroristi il governo di Gaza e la possibilità di ottenere facilmente rifornimenti da parte dell’Egitto che li spalleggia. Difficile che accada, il governo israeliano si è già rifiutato. I terroristi possono accettare una delle due offerte israeliane (l’esilio e il disarmo in cambio della loro sopravvivenza fisica, o il rinnovo della prima fase con la continuazione della tregua alla condizioni attuali e gli scambi a tappe settimanali). Oppure, come è più probabile, ci può essere nei prossimi giorni una ripresa della guerra.
Il cambiamento strategico al Nord
Il teatro dove le cose sono cambiate di più è però il confine settentrionale con il Libano, dove è chiaro che Hezbollah ha perso buona parte delle sue armi e del suo potere e Israele mantiene il controllo di alcuni punti strategici e riesce a impedire con minacce e attacchi mirati i rifornimenti e la riorganizzazione militare dei terroristi. E soprattutto è cambiato il teatro di nord-est con la Siria. Qui due mesi e mezzo fa è crollato molto velocemente il regime di Assad, sostenuto dall’Iran per mezzo di Hezbollah; il potere è stato preso da un gruppo islamista sostenuto dalla Turchia. Ciò ha costituito una grave rottura del “ponte di terra” con cui l’Iran vuole combattere Israele. L’aviazione israeliana ha compiuto subito una serie di attacchi per distruggere quanto possibile dei materiali e delle installazioni militari del vecchio regime; attacchi che continuano ancora oggi. L’esercito si è mosso immediatamente al di là delle linee armistiziali del 1973 conquistando la posizione dominante del Monte Hermon.
L’appoggio ai drusi
Nell’ultima settimana, mentre tutta l’attenzione era volta alla sorte dei rapiti, ci sono stati altri sviluppi importantissimi. I drusi del Golan siriano hanno rotto per la prima volta da decenni la fedeltà allo stato, chiedendo protezione a Israele, che non aveva mai compiuto un gesto del genere. Ci sono stati degli incontri, dei negoziati e Israele ha concesso il suo aiuto. Netanyahu ha dichiarato ufficialmente che la regione a sud di Damasco deve restare libera dall’esercito siriano e che Israele non tollererà attacchi ai drusi. Le forze israeliane sono avanzate accampandosi “per un tempo indeterminato” a circa 40 chilometri da Damasco. Israele sta anche mandando ai villaggi drusi rifornimenti e ha stretto degli accordi per consentire ai loro abitanti di venire a lavorare da pendolari al posto dei palestinesi, con stipendi molto più alti di quelli siriani.
Uno stato anche coi curdi?
Il significato di queste mosse è stato chiarito in alcune dichiarazioni. Israele non vuole impadronirsi di terreni siriani, ma non vuole nemmeno trovarsi un altro confine in mano a gruppi terroristi, com’era a Gaza e in Libano. Intende dunque favorire la creazione di un territorio autonomo dei Drusi nella zona meridionale della Siria, difendendo così il proprio confine e quello giordano dalle infiltrazioni islamiste e turche. Questo territorio potrebbe arrivare a congiungersi con le vaste aree desertiche orientali che sono in mano ai curdi, arrivando fino ai confini con l’Iraq e la Turchia. Si creerebbe così una divisione etnica della Siria, con una zona filo-occidentale dei turchi e dei curdi, un centro sunnita legato alla Turchia e magari l’indipendenza delle zone alawite verso il mare fra Libano e Turchia, dove a quanto pare Israele ha fatto sapere agli americani che sarebbe disposto ad accettare una presenza russa (è la zona da cui vengono gli Assad). Bisogna aggiungere che ci sono drusi israeliani nel Golan meridionale e anche sul Carmelo, che certamente hanno mediato coi drusi siriani, e che ce n’è anche in Libano sui monti a nordovest dell’Hermon. Si tratta di un gruppo guidato da un politico noto, Walid Jumblatt, che è sempre stato contro Israele e vicino a palestinesi e Hezbollah; ma non è detto che la prospettiva di un loro stato non attragga anche loro.
I popoli druso e curdo
I drusi sono un popolo di circa 2 milioni di lingua ed etnia araba che dall’XI secolo pratica una religione monoteista inziatica. Vivono sulle montagne, hanno fama di essere ottimi combattenti, dopo la I Guerra Mondiale si sono ribellati sanguinosamente al dominio del mandato francese di Siria, e da allora hanno praticato la lealtà per gli stati dove abitavano, anche se in lotta fra loro. Quelli israeliani si arruolano tutti nell’esercito e sono fra i combattenti più decorati. Se riusciranno a costituire un loro stato, o un’autonomia, sarà per merito di Israele e questo aumenterà molto la sicurezza della Galilea e del Golan cambiando profondamente il gioco politico della regione. Se poi potranno mettersi d’accordo con i curdi, popolo indoeuropeo di lingua iranica diviso fra Siria, Iraq, Turchia e Iran, in tutto circa 30-40 milioni, la cui indipendenza era stata riconosciuta dopo la I guerra mondiale ma poi repressa da Ataturk, il cambiamento sarà ancora più grande. Tanto che la Turchia per prevenirlo ha estorto negli ultimi giorni a Ocalan, il leader del loro gruppo più forte militarmente (il PKK), che tengono prigioniero dal 1999, un appello ai suoi compagni per l’abbandono delle armi e l’accordo con la Turchia. Difficile che la pace si realizzi davvero così, e difficile anche che nasca uno stato unitario anti-sunnita; ma è chiaro che la struttura geopolitica di tutto il territorio a nord di Israele sta cambiando – probabilmente in meglio.