Skip to main content

Ultimo numero Luglio- Agosto 2024

Luglio-Agosto 2024

Scarica il Lunario 5784

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati







    Ci sarà un incontro anche fra Biden e Netanyahu? Le contraddizioni della politica americana su Israele

    Legami incrollabili

    Quale sia la posizione fondamentale
    degli Stati Uniti su Israele l’hanno ripetuto nei giorni scorsi sia Biden che
    Herzog, usando una formula ormai stabilita: “unshakeable bond,” o “unbreakable
    bond”, un legame che non si può rompere e nemmeno scuotere. La ragione sta non
    solo nel gran numero di israeliani che sono immigrati dagli Usa conservando la
    doppia cittadinanza e nella grande, anche se non certo univoca, influenza
    politica della comunità ebraica americana. C’è la grande gratitudine di Israele
    per la protezione americana e la sicurezza americana di poter sempre contare
    sull’appoggio del suo “più fedele alleato”, ma soprattutto il fatto che gli
    Stati Uniti e Israele condividono tradizionalmente valori, modelli, stili di
    vita, senso religioso dell’esistenza. Ma i “legami incrollabili” sono una cosa
    e la politica un’altra, come si è visto tante volte nei rapporti fra i due
    stati e accade anche oggi.

     

    Qual è la politica di Biden nei
    confronti di Israele?

    Il problema oggi è che non si capisce
    bene quale sia questa politica. Per semplicità si tende a parlare della
    politica di Biden, ma in realtà la presidenza americana deve affrontare una
    massa tale di problemi che non può che lavorare in squadra, che sarebbe
    l’aspetto decisivo anche con un presidente più giovane e attivo di Biden. Si
    tratta dunque della politica formulata da un gruppetto di consiglieri
    responsabili per il Medio Oriente: i principali sono Samantha Powers, Maher
    Bitar, Hady Amr e Robert Malley (ora sospeso per una vicenda di carte segrete
    usate in maniera troppo personale), cui va aggiunto anche l’ambasciatore, anche
    lui uscente Tom Nides. È un gruppo di persone formate per lo più ai tempi di
    Obama, fortemente contrari al governo israeliano in carica, ma soprattutto
    altrettanto fortemente impegnate a favorire un avvicinamento fra Usa e Iran –
    un progetto che oggi sembra incredibile vista l’alleanza fra Iran e Russia, ma
    che riemerge periodicamente ed è il maggior pericolo strategico per Israele,
    come pensa non solo Netanyahu ma anche buona parte dell’opposizione.
    Naturalmente ci sono le spinte del Congresso, quelle pro-Israele come la
    mozione della Camera dei rappresentanti che ha approvato due giorni fa per 412
    voti a 9 fa una risoluzione la quale nega che si possa parlare di Israele come
    uno stato razzista e di apartheid; ma anche quella della “squadra” democratica
    che invece la pensa proprio così, composta da Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan
    Omar, Jamaal Bowman, Rashida Tlaib, Cori Bush e alcuni altri estremisti di
    sinistra antisionisti che ha molto più potere del loro numero, perché essi sono
    visti come i “giovani” del Partito Democratico e dunque la matrice del suo
    rinnovamento.

     

    Il boicottaggio di Netanyahu e
    l’invito inaspettato

    Per questa diffidenza nei primi sette
    mesi del nuovo governo Netanyahu non è stato invitato, com’è normale, a un
    incontro con Biden. E molti hanno visto nell’invito a Herzog un modo ulteriore
    di squalificare chi detiene il potere reale in Israele, cioè il primo ministro,
    in favore di un presidente che ha poteri solo morali. Ciò poteva sembrare
    evidente fino a un paio di giorni fa e pareva chiarissimo dall’intervista che
    Biden ha dato di recente alla CNN, dove ha definito il governo attuale di
    Israele “il più estremista di sempre”. Poi però è venuta, assolutamente non prevista,
    la telefonata di lunedì di Biden a Netanyahu, la prima da oltre quattro mesi,
    proprio alla vigilia dell’incontro con Herzog. E soprattutto si è fatto sapere
    che Biden e Netanyahu avevano stabilito di vedersi entro l’anno, non si capisce
    se con un incontro rituale alla Casa Bianca o in occasione dell’Assemblea
    Generale dell’Onu a settembre. Una dichiarazione di pace, un tentativo di
    ritrovare i rapporti, visto che la speranza di abbattere rapidamente Netanyahu
    si è infranta di fronte alla resistenza e all’abilità politica del leader
    israeliano? Forse. C’è stato anche qualche politico americano che ha negato
    fosse un invito vero e proprio.

     

    Friedman

    E però, appena qualche giorno prima
    della telefonata, c’era stato un articolo del capofila dei nemici di Netanyahu
    nel giornalismo americano, quel Thomas Friedman che nei mesi scorsi era
    arrivato al punto di dire che il problema non era tanto il primo ministro, ma
    proprio l’esistenza di Israele, schierandosi così apertamente dalla parte degli
    antisionisti. Friedman ha scritto un articolo sul “New York Times” contro
    Netanyahu e le sue politiche, dicendo in sostanza di “non avere dubbi che il
    Presidente degli Stati Uniti trasmetterà un messaggio al Presidente di Israele,
    per tristezza e non per rabbia, spiegando che quando gli interessi e i valori
    del governo degli Stati Uniti e del governo di Israele divergono così tanto una
    rivalutazione della relazione è inevitabile” e che dunque essa non è per nulla
    “incrollabile”. Il pezzo era scritto in maniera tale da suggerire che esso
    fosse stato “ispirato”. Molti dirigenti israeliani hanno smentito che quella
    fosse l’autentica posizione americana, ma Biden il giorno dopo aver parlato con
    Herzog, ha ricevuto Friedman alla Casa Bianca per far sì che “le sue parole
    fossero chiarissime agli israeliani”, secondo quanto ha scritto il giornalista.
    E il messaggio è di “fermare la riforma della giustizia” a meno che le arrivi
    il consenso di chi protesta contro di essa e naturalmente anche di smettere di
    costruire case in Giudea e Samaria e di non combattere troppo duramente i
    terroristi, ma di cercare di nuovo un accordo con l’Autorità Palestinese, che
    non lo vuole, cioè di fare la politica della sinistra e magari così di fare
    saltare il governo: il suicidio di Natanyahu. Con una conclusione che sa di
    ricatto: “In fondo sta chiedendo questo a Netanyahu e ai suoi sostenitori:
    se non vi accorgete che condividiamo questo valore democratico, sarà difficile
    sostenere per altri 75 anni la relazione speciale di cui Israele e l’America
    hanno goduto negli ultimi 75 anni […] Messaggio agli israeliani di destra,
    sinistra e centro. Joe Biden potrebbe essere l’ultimo presidente democratico
    pro-Israele. Se ignorate le sue oneste preoccupazioni, questo è il vostro
    rischio”.

     

    Netanyahu non reagisce

    Anche in questo caso ci sono state
    sia smentite che conferme alla corrispondenza delle affermazioni di Friedman
    con il pensiero di Biden. È chiaro che il disordine nella Casa Bianca è grande,
    almeno riguardo a Israele, e che la lotta fra amici e avversari di Israele
    nella politica americana non si risolverà presto. Come risponderà Netanyahu?
    Molto probabilmente starà zitto, come ha fatto nel passato recente e anche
    ieri, quando ha solo molto lodato il discorso di Herzog per il forte
    avvertimento sui rischi dell’Iran.

    CONDIVIDI SU: