Alla vigilia delle elezioni
La lunga campagna elettorale iniziata con lo scioglimento della Knesset (il parlamenmto unicamerale di Israele) il 30 giugno scorso e forse anche un paio di settimane prima, quando è apparso chiaro che l’eterogenea coalizione che sosteneva il governo Bennett aveva perduto la maggioranza parlamentare, è ormai quasi conclusa: lunedì prossimo in Israele si vota. E’ stata una campagna lunga ma poco coinvolgente, anche perché è la quinta in quasi quattro anni: circa una trentina di mesi di campagne elettorali da quando, il 14 novembre 2018, Avigdor Liberman, ministro della difesa, lasciò il governo Netanyahu per dissensi sul cessate il fuoco raggiunto a Gaza, provocando poi la caduta del governo con la successiva uscita di Bennett, scontento per non essere stato nominato al suo posto. In tutte queste elezioni, non è cambiato il punto centrale degli schieramenti, pro o contro la leadership di Bibi Netanyahu, come se Israele non avesse giganteschi problemi di scelte politiche e di sicurezza e l’elettorato non dovesse concentrarsi altro che su una questione di persone. I protagonisti poi sono stati più o meno gli stessi: Netanyahu, Lapid, Liberman, Bennett (che questa volta è mancato essendosi autosospeso dalla politica dopo il fallimento governativo), Gantz (che mancava alle prime elezioni, essendo ancora nel periodo di “raffreddamento” richiesto agli ex generali in pensione prima di poter partecipare alla lotta politica). E anche i comprimari non sono molto cambiati, troppo numerosi per nominarli tutti qui data l’estrema personalizzazione della politica israeliana. Vale la pena però di raccontare alcune di queste persone, che possono servirci da guide per capire dove sta andando la politica israeliana.
I comprimari: a destra Ben-Gvir, il più odiato dai progressisti
La prima persona che vale la pena di citare è uno dei più probabili vincitori delle prossime elezioni, quello che dovrebbe aumentare di più i suoi voti. Si tratta di Itamar Ben-Gvir, avvocato di 46 anni, leader del partito Otzma Yehudit (che significa “Forza ebraica”) Dopo aver partecipato molte volte alle elezioni a partire dal 2013, Ben-Gvir è stato eletto per la prima volta nel 2021 con un’alleanza di destra che vinse sei seggi. Ora al suo gruppo, alleato con quello sionista religioso di Bezalel Smotrich i sondaggi assegnano oggi fra i 12 e i 14 seggi alla Knesset, facendone la terza formazione dopo il Likud di Netanyahu e Yesh Atid di Lapid. Ben-Gvir è il politico israeliano oggi più controverso, c’è chi lo accusa di razzismo, chi di fanatismo anti-arabo, chi di fascismo, chi di essere un successore del partito Kach rabbino Kahane, il solo partito ebraico sciolto d’autorità. Sono tutte accuse che l’interessato respinge. A settembre scorso per esempio ha dichiarato “Non desidero la morte degli arabi, né sostengo la loro deportazione, ma ho un problema con coloro che ci lanciano bombe molotov o feriscono i soldati dell’IDF. Ho anche un problema con chi è alla Knesset e va contro il nostro Paese”. Certamente Ben-Gvir è un nazionalista, che per esempio si è molto impegnato nel sostegno dei proprietari delle case del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme nella controversia con gli occupanti arabi. Si sa che vi sono state pressioni da parte americana per ottenere da Netanyahu l’impegno a non inserirlo in un suo futuro governo. Ma sicuramente Ben-Gvir, da personaggio marginale che era, diventerà uno dei protagonisti della politica israeliana.
I comprimari: a sinistra Merav Michaeli nemica dei religiosi e dei “coloni”
Il leader del glorioso partito laburista, Merav Michaeli, ministro dei trasporti dell’attuale governo, non sembra avere altrettanta fortuna elettorale. Per il suo partito, come per il gemello Meretz, i sondaggi prevedono un difficile superamento della soglia elettorale (dunque quattro seggi o nessuno). Ma Michaeli non ha voluto unire le forze con il Meretz e ha cercato di promuoversi spingendosi più a sinistra possibile, almeno per i criteri israeliani, dunque abbandonando l’atteggiamento moderato e governativo che una volta caratterizzava il suo partito, per collocarsi all’estrema sinistra. Per esempio, ha annunciato di voler obbligare i trasporti pubblici a funzionare anche di sabato, rompendo una tradizione di rispetto per le regole ebraiche dello shabbat che risale a Ben Gurion. Sempre da ministro dei trasporti ha annunciato che intende porre il veto a ogni investimento nelle infrastrutture pubbliche delle città e dei villaggi di Giudea e Samaria, perché “tanto quelle zone non fanno parte di Israele e non bisogna buttare vi i soldi per svilupparle”. Hanno fatto anche rumore le sue teorie sulla famiglia: i figli non dovrebbero essere semplicemente affidati ed educati dai loro genitori; alla nascita dovrebbe essere lo Stato a decidere dove e da chi debbano essere cresciuti. Michaeli potrebbe contare molto, ma soprattutto come spauracchio per spingere gli avversari a venire a votare.
I comprimari: Ayelet Shaked che probabilmente non ce la farà
La terza persona da tener d’occhio è Ayelt Shaked, attuale ministro dell’Interno, che per qualche anno è stata fra i personaggi più popolari della destra. Come numero due del partito Yamina (A destra), Shaked ha però seguito la scommessa perduta Naftali Bennett ed è entrata nel suo governo eterogeneo che ha retto appena un anno, pur lasciando qualche volta trasparire il suo dissenso. In questa campagna elettorale Shaked ha dichiarato di essere disposta nella nuova Knesset ad aderire a un governo Netanyahu e ha cercato di ottenere il suo supporto, ma senza successo. Ora i sondaggi le attribuiscono il 2% dei voti circa (il limite per entrare alla Knesset è il 3,25), che sarebbero perduti per il blocco di destra e potrebbero anche essere decisivi in elezioni così incerte; ha avuto molte pressioni per il ritiro, che finora ha respinto fieramente. E’ probabile che il malinconico ritiro di Bennett concluda anche la sua carriera.