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    Avigail Dadon. Da Lod una lezione di Torah e amore per Israele

    Il terrore di Hamas ha colpito con brutale violenza tutto lo Stato d’Israele. La popolazione della città di Lod, a poco più di dieci chilometri dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, ha vissuto giorni e ore di profonda angoscia per la presenza di cittadini arabo israeliani pronti a riaccendere la miccia che nel 2021 aveva portato a gravissimi scontri. Shalom ha intervistato Avigail Dadon che da oltre vent’anni vive a Lod.

     

    Può dirci qualcosa di lei, delle sue origini italiane, della sua aliyà?

    Mi chiamo Avigail Dadon, da nubile Hadad. Sono cresciuta a Milano da genitori provenienti dal Marocco, che hanno svolto per mezzo secolo il ruolo di Rav e di Rabanit della comunità sefardita del capoluogo lombardo, quali shlichim del Rebbe di Lubavitch. Ho fatto l’aliyà nel ’99, immediatamente dopo essermi sposata con un ragazzo israeliano. Ci siamo stabiliti a Lod, una città “mista”. Senza nulla togliere al profondo affetto che nutro per l’Italia, la sua cultura e la sua lingua, da quando ho fatto l’aliyà considero Eretz Israel la mia casa a tutti gli effetti, dove ho – Baruch Hashem – la fortuna di vivere con la mia famiglia e il mio popolo.

     

    Com’è vivere in una città mista come Lod?

    La realtà quotidiana presenta diverse sfaccettature. Se da un lato non ci sono attentati, dall’altro andiamo a dormire tutti le sere al ritmo di spari. Spari veri, come quelli del Far West. Nel loro quartiere principale, che è proprio di fronte al mio, è la malavita araba a dettare legge. Molti, troppi di loro sono armati e le sparatorie sono all’ordine del giorno. Nessuno di noi, poi, si sognerebbe di girare per quelle strade senza un motivo estremamente valido e comunque non di sera. C’è molta violenza. Nel corso dell’ultimo conflitto i cittadini arabi hanno commesso innumerevoli aggressioni nei confronti della popolazione ebraica, seminando terrore. Attualmente sono tranquilli, anche se chi se ne intende sostiene che nella preghiera del venerdì l’imam abbia espresso sostegno per Hamas, ma non si tratta di una notizia confermata. Ciò che è certo è che nessuno di loro si è espresso a favore di Israele, che è il Paese in cui vivono e che elargisce loro tutti i benefici di cui godono i loro concittadini ebrei. Scuole, sistema sanitario, attività di ogni genere, servizi sociali, infrastrutture funzionanti e molto altro. Silenzio totale. Non che ci aspettassimo altro!

     

    Il 7 ottobre dove si trovava? Che emozioni e quali sentimenti si sono succeduti in un giorno che avrebbe dovuto rappresentare solo la celebrazione di Simchàt Torà?

    Verso le 6:30 del mattino, sono stata sorpresa, come gran parte dei miei connazionali, da una raffica di sirene. Qui a Lod, anche nei momenti peggiori, di sirene non ne abbiamo mai avute più di due in una stessa giornata. Il 7 ottobre ce ne sono state dieci in due ore e mezza. Eravamo in stato di totale confusione quando siamo scesi per le scale del secondo piano del mio palazzo, ancora in pigiama e stanchissimi dagli eventi gioiosi della sera precedente. Siamo tutti andati comunque al Bet Haknesset, con molte domande ma nessuna risposta. Finché le risposte hanno cominciato ad arrivare, con il contagocce. Si parlava di un’infiltrazione, di qualche decina di morti. Ma fino a Moztaei Shabbat e Simchàt Torà – un Simchàt Torà che non dimenticheremo mai – eravamo ancora ignari dell’immensa portata della strage in corso. I sentimenti e le emozioni li potete immaginare: un profondo dolore, penetrante, fisico e anche molti interrogativi sulle condizioni dei miei numerosi parenti del sud, anche di Ofakim. Ma tutti, in fin dei conti, sono nostri parenti. Uno strazio. Non riusciamo ancora a consolarci.

    (Una sinagoga di Lod data alle fiamme nel 2021)

    Come aiuta l’emunà ad affrontare questi giorni di attacco terroristico di Hamas e di guerra?

    L’emunà è una realtà innata in ciascun ebreo. Ce l’abbiamo incisa e indelebile nel DNA, anche se spesso purtroppo è latente o messa a tacere di forza. Come spiega Rambam (Maimonide) essa va nutrita e coltivata, altrimenti non riesce a farsi strada nei momenti in cui risulta estremamente necessaria. Il nostro legame con Hashem va coltivato, passo dopo passo, con impegno, pazienza, forza di volontà. E poi, in momenti come questi, in cui veniamo messi duramente alla prova, le risorse abbondanti da cui attingere si trovano a portata di mano. Quando si studiano la Torà e la chassidut in maniera costante, si percepisce la realtà in maniera più profonda. Si riesce a proiettare luce sugli eventi. Ad accettare anche senza capire. Ad amare Hashem ad ogni costo. A comprendere che “nulla di male scende dall’alto” (Tanya) anche quando non lo vediamo con gli occhi. L’emunà aiuta quindi affrontare momenti difficili come quello che stiamo passando ora. Ciò non significa che non si vacilli e talvolta addirittura non si cada. Fa parte del gioco della vita. Ma bisogna sempre guardare avanti, verso lo scopo, che è la Gheulà finale. 

     

    In cosa si è concretizzato e come sono cambiati il suo impegno per Am Israel e la sua Achavat Israel?

    In questo periodo stiamo facendo tutti del nostro meglio per rinsaldare l’unità di Am Israèl (pausa sirena n.d.r.). Innanzitutto, a livello personale cerco di pregare molto di più e leggere molti più capitoli di Tehillìm del solito, per tutto Am Israel. Penso comunque che questo lo facciano quasi tutti. Inoltre cerco di diffondere sui social quanti più messaggi di incoraggiamento, positivi e ottimisti, sempre basandomi sulle parole dei Rabanim e in particolare del Rebbe di Lubavitch, che sono sempre attuali. In scala più vasta, fin dal primo giorno ho cercato di dare il mio contributo alle traduzioni di testi e filmati per la hasbarà (“propaganda esplicativa”) in italiano. Non che io creda che possa cambiare le idee di chi sostiene la causa di Hamas e dei nostri nemici, ma penso che possa essere d’aiuto per chi non ha le idee chiare non per cattiva volontà, ma per disinformazione.

    Inoltre, nel mio piccolo, cerco di contribuire finanziariamente a qualunque iniziativa possa sostenere, fisicamente e spiritualmente, i nostri soldati e gli evacuati. Ho anche aperto una piccola biblioteca in casa per le famiglie della comunità. Infine, cerco di dare una mano anche qui alle mamme, che si ritrovano in casa tutto il giorno con i bambini e sono sottoposte a stress non indifferente. E il mio Shiur Torà settimanale non l’ho assolutamente voluto annullare, né fare via zoom.

     

    Ognuno di noi deve essere portatore di luce e responsabilità. Alla domanda di Hashem “Dove sei?”, dobbiamo tutti saper rispondere  “eccomi”. In quale modo gli ebrei della diaspora possono essere a fianco dei loro fratelli in Eretz Israel? 

    Gli ebrei in diaspora possono fare molto. Innanzitutto, pregando di più, studiando più Torà e cercando di migliorare la propria osservanza delle mitzvòt. Questo, dal punto di vista spirituale, che è in sostanza ciò ha garantito la nostra sopravvivenza nel corso dei millenni. A livello tecnico, si può contribuire finanziariamente al sostegno delle famiglie del sud. Tra poco, quando tutto sarà finito, ci sarà bisogno di aiutare la gente a tornare a casa, alla routine. Sarà necessario mettere a loro disposizione sostegno psicologico. Contribuire a ristrutturare molte abitazioni, aiutare a ricomprarsi elettrodomestici, mobili, abbigliamento, tefillìn e mezuzòt… Infine, invito tutti ad astenersi categoricamente dal diffondere filmati e immagini degli orrori perpetrati nei nostri confronti. Lo disse Nachmanide, lo disse l’Arìzal e lo dissero molti altri: guardare scene di orrori nuoce alla psiche e all’anima.

     

    Tra i tehillim che vengono letti in questi momenti drammatici ne ha uno più che desidera commentare?

    Tutti i tehillìm sono adatti a un periodo del genere. In particolare il numero 20, che parla della vittoria di Israèl anche quando il nemico sembra essere in vantaggio militare. Di lacrime ne abbiamo versate abbastanza. Con l’aiuto di Hashem, vinceremo anche questa volta.

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