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    Approvato il bilancio 2023-24 dello Stato di Israele, una vittoria importante per Netanyahu

    Un passaggio giuridicamente significativo

    Dopo una notte intera di discorsi e di voti, la Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, ha approvato mercoledì mattina il bilancio dello stato per 64 voti a 55. È un voto importante, anzitutto perché la mancata approvazione del bilancio nei tempi stabiliti (quest’anno era il 30 maggio) è, secondo la legge israeliana, la sola ragione dello scioglimento automatico della Knesset e dell’indizione di nuove elezioni. A differenza dell’Italia, il Presidente della Repubblica non ha questo potere; la Knesset può sciogliersi da sola con una legge apposita, com’è accaduto diverse volte negli ultimi anni; ma è chiaro che un inciampo o un voto contrario sul bilancio erano il mezzo più semplice per far cadere il governo e la sua maggioranza. Questo non è accaduto, la coalizione ha tenuto senza perdite e anche le solite trattative fra gli interessi che in tutti i regimi democratici e anche in Israele caratterizzano la definizione del bilancio, che in sostanza è l’impegno degli investimenti pubblici, non sono risultate più difficili o contrastate del solito.

     

    Provvedimenti sociali

    Vi sono stati alcuni cambiamenti rispetto al passato, con maggiori investimenti sul settore charedì (quello che la stampa occidentale chiama con un termine poco sensato “ultraortodosso”), sulle regioni periferiche della Galilea e del Negev, provvedimenti sociali come lo spostamento di fondi da alcune città ricche a quelle più bisognose per favorire la costruzione di case popolari o gli interventi sui consumi alimentari,  la previsione di una articolazione un po’ differente del servizio militare, un importante finanziamento per la Difesa. Ogni ministro ha tirato acqua al suo mulino, ma poi la determinazione del Ministro delle Finanze Smotrich e la grande esperienza del Primo Ministro Netanyahu hanno favorito un passaggio non troppo accidentato del bilancio.

     

    Un cambiamento di clima politico

    Il passaggio del bilancio è anche un punto di svolta politico. Segue l’ottima esecuzione dell’operazione di Gaza, un riaccendersi dell’interesse internazionale per Israele (Netanyahu è stato per esempio invitato per l’autunno negli Emirati; si parla con insistenza di numerosi passi avanti nella normalizzazione con l’Arabia Saudita). E, soprattutto, la ventata di insofferenza per il governo della destra che aveva raggiunto il culmine un paio di mesi fa è chiaramente in ritirata. I sondaggi non promettono più, se si votasse oggi, una maggioranza di sinistra, ma al massimo un nuovo risultato nullo; le manifestazioni settimanali di protesta sono molto meno numerose, sono emerse divisioni nell’opposizione, vi sono state manifestazioni numerose anche a sostegno del governo. Insomma non vi è più il clima di assedio che si viveva a marzo, ma quello normale per Israele di un acceso scontro politico.

     

    Che accade ora?

    Al momento del passaggio del bilancio Netanyahu ha annunciato che intende ricominciare a lavorare sulla riforma giudiziaria e che vuole cercare di ottenere un accordo con l’opposizione su questo tema, che è stato presentato nelle manifestazioni come una minaccia alla democrazia, ma che quasi tutti gli esperti della politica israeliana, anche dalle parti dell’opposizione, riconoscono come una urgenza da affrontare. Nei due mesi di sospensione della discussione parlamentare sono andate avanti consultazioni discrete patrocinate dal presidente Herzog fra la maggioranza e buona parte dell’opposizione. A quanto pare si sono raggiunti accordi su alcuni temi, come la riduzione dell’anomalo potere che è cumulato da un funzionario non eletto, il consigliere “giuridico del governo” che è anche procuratore generale e può imporre le sue valutazioni alla volontà del governo e della Knesset senza doverle giustificare a nessuno. Ma non è detto che il consenso sia condiviso da tutta l’opposizione parlamentare ed è ancora più difficile che soddisfi gli organizzatori delle manifestazioni di piazza, che in buona parte sono extraparlamentari i quali non rispondono ai partiti. È possibile, anzi, che la ripresa del lavoro parlamentare sulla riforma giudiziaria induca a una nuova intensificazione delle proteste. Esse del resto sono quasi esplicitamente sostenute dall’amministrazione Biden, che ha mostrato in maniera molto chiara la propria insoddisfazione per molte scelte del governo Netanyahu e di recente, a quanto hanno scritto senza smentite i giornali israeliani, avrebbe addirittura condizionato il proprio apporto all’accordo fra Israele e l’Arabia Saudita, che sarebbe un fatto storico importantissimo, all’abbandono della riforma giudiziaria e alla riapertura di improbabile trattative “di pace” con l’Autorità Palestinese. D’altro canto gli Stati Uniti stanno entrando a loro volta nel loro lungo processo elettorale e Netanyahu ha esperienza e lucidità sufficiente per riuscire a far valere l’indipendenza dello Stato ebraico dai condizionamenti della politica americana. Insomma i problemi del panorama politico israeliano non sono affatto finiti, ma certamente il governo ha ora più tempo e autorità per trattarli.

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