All’età di 18 anni, Raja Karlinska lascia Bialystok, la sua città natale in Polonia. Ha una valigia e un sogno, laurearsi in medicina sotto i portici dell’università più antica del mondo. A Bologna è felice, e studia seriamente. Nonostante la mole di lavoro, tra i corsi e gli esami all’Alma Mater Studiorum, Raja si innamora. E nel 1935 partorisce Mirko. Il padre di suo figlio, però, è l’uomo sbagliato per lei. E’ uno che conta, nel partito fascista italiano. E grazie alle sue conoscenze, strappa Mirko alle cure della madre e lo porta via con sé. Raja riesce a laurearsi nel 1939 ma, rimasta senza rete di protezione, nel 1940 viene rinchiusa a Villa Lauri, un campo di concentramento a Pollenza, in provincia di Macerata, insieme con altri ebrei apolidi o di cittadinanza straniera.
Nonostante tutto, Raja si innamora ancora. Questa volta dell’uomo giusto, il medico italiano Giuseppe Zanarini. Dopo un anno di reclusione, Raja viene rilasciata e dà alla luce Dafna. Quando la bambina compie quattro mesi, le due vengono mandate a Foiano della Chiana in provincia di Arezzo. Lo status di Raja, dichiarato alla polizia locale, è di prigioniera liberata. Ma grazie ai legami del marito con i partigiani in Toscana, madre e figlia riescono a fuggire prima a Firenze e poi a Bologna. Per tutta la durata della guerra, assumono una falsa identità. Anna Maria Giberti è Raja. Sua figlia Laura è Dafna. Solo dopo la nascita di Israele, nel 1949, la 36enne Raja, con Dafna che ha ormai 8 anni, raggiungono Israele, dove la dottoressa Karlinska trova la sua strada arruolandosi come medico nell’esercito.
Quella di Raja Karlinska è una delle 14 storie presentate nella nuova mostra online di Yad Vashem “Ricorda il tuo nuovo nome: sopravvivere all’Olocausto sotto falsa identità”, in occasione del Giorno della memoria.
“Oggi, mentre la distorsione e la banalizzazione della Shoah diventano sempre più mainstream, alimentate da odio, antisemitismo e xenofobia, mettere in evidenza le storie personali è più importante che mai”, sostiene da Gerusalemme il presidente del Centro Mondiale per la Memoria della Shoah, Dani Dayan.
“Questa iniziativa mette in luce come vissero alcuni ebrei al di fuori dei ghetti, dei campi di concentramento e di sterminio”, spiega Dana Porath, Direttrice del Dipartimento Digitale della Divisione Comunicazione di Yad Vashem. “Imprigionati dalla paura paralizzante di essere scoperti per chi e per cosa erano veramente, hanno vissuto la loro vita come spettatori della difficile situazione dei loro compagni ebrei, ma senza poter fare nulla al riguardo. Questi ebrei erano spesso gli unici membri della loro famiglia a sopravvivere alle atrocità della Shoah”.
Così è stato anche per Raja Karlinska. Il suo ultimo contatto con i parenti nella terra di origine risale al giugno 1942 ed è affidato a una cartolina che ha viaggiato dal ghetto di Bialystok fino a Foiano della Chiana. “Mia amata Rajke, abbiamo ricevuto la tua lettera. Stiamo bene. Per favore, scrivi”. Ma i genitori e tutti i membri della famiglia rimasti in Polonia finirono assassinati.
“Spesso svegliavo i bambini nel cuore della notte, per controllare se ricordavano i loro nuovi nomi anche quando erano mezzi addormentati”, ricorda un’altra sopravvissuta, Brenda Pluczenik-Schor, nelle sue memorie. Un sentimento di perenne minaccia esistenziale. Pur essendo liberi, vivevano nella paura, nello sforzo di rendersi invisibili. Ogni persona, ogni luogo rappresentava un rischio. Neanche un minimo errore era contemplato, perché sarebbe costato loro la vita, così come ai loro ospiti.