Le liste elettorali e i sondaggi
Martedì 1° novembre finalmente in Israele si vota, per la quinta volta in meno di quattro anni, e tutti di nuovo esprimono la speranza che la lunghissima crisi politica dello stato ebraico si concluda. Gli israeliani si troveranno al seggio i simboli (in realtà sono sigle alfabetiche, le modalità concrete del voto sono un po’ diverse dalle nostre) di ben 39 liste, ma di queste solo (se si può dire solo) 13 hanno speranze abbastanza concrete di superare la soglia del 3,25% (corrispondenti a 4 seggi su 120) che limita l’accesso alla Knesset e ben 11 sono accreditate dai sondaggisti di poterlo fare: il Likud di Netanyahu (fra i 30 e i 34 seggi, secondo gli ultimi sondaggi), Yesh Atid dell’attuale premier Lapid (23-25), la lista sionista religiosa di Ben-Gvir e Smotrich (13-15), quella di Gantz e Sa’ar (11-13) i due partiti religiosi sefardita e askenazita (9 e 7), i “russi” di Liberman (6) e infine quattro partiti sulla soglia dei 4 seggi: l’estrema sinistra di Meretz, la sinistra ex moderata diventata anche lei piuttosto estrema dei laburisti, la lista araba islamista Ra’am, che faceva parte del governo uscente, l’altra lista “unita” araba che mette insieme comunisti e nazionalisti palestinesi. Appaiono fuori gioco invece gli altri arabi di Balad, spesso legati al terrorismo, e anche ciò che resta del partito dell’ex primo ministro Bennett, Yamina, oggi guidato da Ayelet Shaked. Bisogna dire che i sondaggi non sono perfettamente credibili, non solo perché hanno spesso sbagliato in passato, ma anche perché condotti chiedendo l’opinione di meno di un migliaio di elettori, il che comporta un margine matematico di errore intorno al 3%, che in elezioni così combattute sulla soglia di ammissione risulta ben maggiore della differenza fra sconfitta e vittoria.
L’analisi politica
Gli schieramenti di governo possibili sono due, come nelle altre elezioni recenti: un blocco per il ritorno di Bibi Netanyahu a primo ministro, che comprende il suo partito, la destra e i religiosi, che è accreditato fra i 59 e i 62 seggi (la maggioranza è 61) e l’altro blocco che vi si oppone, diviso a sua volta in circa 50-52 seggi dei partiti ebraici di centrosinistra e di sinistra e circa 8 dei partiti arabi. Ogni schieramento trasversale è reso difficile dai numeri e soprattutto dagli impegni pubblici che hanno preso Gantz e Liberman a non collaborare in alcun caso con Netanyahu. Ciò significa che se i partiti del blocco di destra manterranno le migliori speranze dei sondaggi, sarà possibile un nuovo governo di Bibi, in cui però ciascuno di loro sarà indispensabile e sarà dunque fornito di un potere di veto. Più difficile costruire un governo del blocco opposto, sia perché esso dovrebbe di nuovo comprendere forze eterogenee come i nazionalisti di Liberman ed entrambi i partiti arabi, tutti forniti di potere di veto, sia perché i sondaggi vedono comunque in svantaggio questo schieramento, sia infine perché ben quattro partiti di questo settore sono molto vicini alla soglia di ammissione e basterebbe un piccolo scostamento negativo di uno solo fra loro per sottrarre alla coalizione quattro seggi, che i meccanismi della legge elettorale non assegnerebbero alle listi affini ma redistribuirebbero fra tutti i partiti, dando così una sicura maggioranza all’altro fronte.
La posta in gioco
Vale la pena di notare che questa situazione spinge verso una maggiore polarizzazione del risultato elettorale, perché le componenti estreme saranno determinanti per qualunque maggioranza. Non si decide insomma solo se il vecchio Bibi (73 anni appena compiuti) che molti politici detestano ma che continua ad avere la maggiore approvazione popolare nei sondaggi, possa continuare a comandare o debba andare in pensione. La scelta riguarda anche tendenze politiche più di fondo: se Israele debba continuare ad essere uno stato ebraico o debba trasformarsi in uno stato binazionale, privo di caratterizzazione religiosa e nazionale. Se vincesse la coalizione fra sinistra e arabi senza dubbio vi sarebbero conseguenze politiche rilevanti, si tornerebbe alla linea strategica dello scambio di territori in cambio di una pace che da vent’anni l’elettorato considerava fallita, vi sarebbero ulteriori difficoltà per gli abitanti degli insediamenti oltre la linea verde, probabilmente cadrebbero alcune regole influenzate dalla tradizione religiosa che determinano la vita sociale in Israele, come la pausa di shabbat nei servizi pubblici, e l’aiuto pubblico ai settori religiosi, le forze armate avrebbero ulteriori freni nella loro azione contro il terrorismo, vi sarebbe un maggiore allineamento con gli Usa di Biden e l’Unione Europea in politica internazionale, il sistema giudiziario attuale sarebbe rafforzato nel suo interventismo sul piano politico, vi sarebbe un occhio di riguardo per beduini e palestinesi e una certa copertura per le loro illegalità, comprese le occupazioni di territorio e l’edilizia abusiva. Se vincesse la destra, religiosi e residenti al di là della linea verde sarebbero aiutati, vi sarebbe una mano più dura contro le azioni illegali dell’autorità palestinese e degli arabi israeliani, sarebbe più facile un’azione militare contro l’Iran, si rafforzerebbe quell’asse fra Israele e i paesi sunniti che è nato con gli “accordi di Abramo”, più sintonia con i repubblicani americani e con i conservatori europei, si rafforzerebbe l’impostazione economica liberale.
Elezioni comunque decisive
La probabilità più alta è però che di nuovo non si riesca a costituire una maggioranza di governo e che si vada dunque a nuove elezioni in primavera, le seste, con la continuità del governo di minoranza che già ora resta in carica solo per l’ordinaria amministrazione, anche se Lapid ha mostrato negli ultimi mesi una certa propensione a forzare i limiti legali di questa condizione, per esempio riuscendo a nominare un nuovo capo di stato maggiore dell’esercito, carica fondamentale che scadrà solo a gennaio, o a firmare (quattro giorni prima delle elezioni e senza approvazione parlamentare) il controverso accordo di spartizione col Libano delle acque territoriali e dei giacimenti di gas che vi si trovano. Ma forse, se anche queste elezioni non dessero esito, qualcosa cambierebbe nel panorama politico israeliano: per esempio la Knesset potrebbe intervenire sulla legge elettorale introducendo dei meccanismi per favorire la formazione di maggioranze coerenti. Ma potrebbero esservi novità nella collocazione dei leader politici e delle liste. Qualcuno pensa, per esempio, che questa possa essere l’ultima occasione per Netanyahu di cercare di tornare alla guida del governo, e che, se non ce la facesse questa volta, nel 2023 potrebbe essere costretto al ritiro dalla politica. Difficile dire. Certamente chiunque governi Israele nei prossimi mesi dovrà prendere decisioni difficili sul riarmo dell’Iran, la Russia, l’ondata terrorista palestinese che non si ferma. E la democrazia israeliana, va sottolineato, è sì inceppata, ma è anche ben viva e condivisa dal popolo, l’unica del Medio Oriente.