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    ‘’Olim: lasciare casa per ritornarci’’

    ‘’Coraggio, lasciare tutto indietro e andare, partire per ricominciare, che non c’è niente di più vero di un miraggio…’’

    La bellissima canzone ‘’Buon viaggio’’ di Cesare Cremonini racconta la storia di chi va via per cercare la propria felicità e il proprio completamento altrove. C’è però lo strano caso di chi lascia la propria casa per ritornarvi. No, non è un assurdo, ma la storia degli olim, cioè gli ebrei della diaspora che decidono di trasferirsi in Israele, la terra dalla quale i loro antenati fuggirono a causa delle più varie persecuzioni migliaia di anni fa.

    Il verbo ‘’ritornare’’ non è di utilizzo casuale: il 5 luglio del 1950 la Knesset, il Parlamento di uno Stato d’Israele di soli due anni di età, promulgò quella che è passata alla storia come la ‘’legge del ritorno’’, che ha abrogato le norme britanniche sulla limitazione all’immigrazione ebraica in Palestina e ha garantito la possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana ad ogni persona avente discendenza ebraica nel mondo, purché avente l’esplicita volontà di trasferirsi permanentemente e con il solo vincolo della doverosità del servizio militare per chi ancora in età per farlo.

     

    Da quel momento tutti gli ebrei sapevano di avere una casa.

     

    ‘’Io non voglio più essere adottato, non voglio più che la mia vita dipenda dall’umore dei miei padroni di casa, non voglio più affittare una cittadinanza, ne ho abbastanza di bussare alle porte della storia e di aspettare che mi dicano avanti.’’

     

    Questa frase, tratta da ‘’Arringa per la mia terra’’ di Herbert Pagani e da lui recitata nel novembre 1975, all’indomani della mozione ONU per l’equiparazione del sionismo al razzismo, esprime di fatto il pensiero dei molti che hanno lasciato tutta la loro vita per fare l’aliyah (‘’salita’’, il trasferimento in Israele), ognuno con i propri motivi e la propria storia, ma tutti accomunati dalla consapevolezza di sapere esattamente da dove ricominciare.

     

    ‘’Quando ho conosciuto mio marito, avevamo entrambi il desiderio di trasferirci, ma per anni non lo abbiamo fatto – dice Giorgia – Sono nipote di un ex deportato. Ho fatto con lui il Viaggio della Memoria, e, vedendolo fare la scalinata della morte, ho iniziato a piangere, ho guardato mio marito e gli ho detto: ‘’portami a casa’’. Due anni dopo siamo andati a vivere in Israele.’’

     

    Non è solamente un discorso di appartenenza ad un luogo, ma la consapevolezza di voler andare dove la propria cultura, le proprie tradizioni, il proprio modo di essere, sono quelli della collettività. L’ebreo della diaspora, soprattutto quello europeo, porta sulle spalle una tradizione di barriere e discriminazioni che inevitabilmente rendono la persona diffidente e in difficoltà nel manifestare apertamente la propria identità. Se a questo si aggiungono i numerosi episodi di antisemitismo ai danni di soggetti con indosso una kippah o con abbigliamento di chiara connotazione ebraica, si ottiene un ambiente difficilmente vivibile per una persona particolarmente religiosa.

     

    ‘’Nato e cresciuto a Roma, dove ho studiato medicina, sono emigrato da circa un anno e mezzo perché con gli anni sono diventato più osservante e ho voluto vivere la cosa in modo più semplice – dice David – Qui ho studiato per 5 mesi la lingua ebraica (ulpan), ho superato l’esame di abilitazione e poi ho lavorato come medico pre-specializzato. Ora mi trovo nel percorso per entrare in specializzazione in medicina interna. Ho anche trovato l’amore, e da un mese mi sono sposato. Mi manca la mia città natale, mi manca la cultura italiana, ma sento di aver fatto la scelta giusta.’’

     

    I contributi offerti dallo Stato d’Israele per il trasferimento sono molteplici, e di natura soprattutto materiale: alloggio per i primi mesi, contributi per i corsi di formazione ed istruzione, agevolazioni per mutui e molto altro. 

    Per questo motivo, anche tanti giovani ebrei decidono di trasferirsi ed affrontare un percorso di studi. È la storia di Ghila, che ha lasciato Roma ed è andata al liceo Mosenson di Hod HaSharon. Una volta terminata l’esperienza, ha inizialmente deciso di tornare definitivamente a casa. E invece…

     

    ‘’Israele aveva pagato tutto il mio periodo di istruzione, non sarebbe stato corretto sfruttare questa opportunità e poi andarmene: sentivo di voler restituire in qualche modo. Quindi mi sono fatta coraggio e ho deciso di ritornare per arruolarmi, ho fatto un corso di ebraico e poi un altro per diventare mefakedet (comandante di aeronautica), ruolo che ricopro tuttora.’’

    Non è un episodio raro: sono moltissimi i casi di persone che decidono di tornare, trascorsa un’esperienza fuori. È come se la legge del ritorno traslasse la carta e permeasse la realtà, creando nelle persone la consapevolezza di avere la fortuna di trovarsi in una terra che costituisce un unicum assoluto, un melting-pot di persone con storie, lingue e abitudini differenti tra di loro, ma tutti con qualcosa in comune.

    ‘’A 21 anni mi sono trasferito a Tel Aviv, dove ho conosciuto mia moglie – racconta Davide – Tre anni dopo siamo andati a vivere a Monaco di Baviera, in Germania, dove ho iniziato a lavorare per una società Hi-Tech di San Francisco. Dopo un po’ abbiamo deciso di trasferirci col nostro bimbo nuovamente a Tel Aviv, stavolta come olim. Avevamo il desiderio di vivere nuovamente quell’atmosfera unica che contraddistingue questa città, che corre, cresce in misura esponenziale, un luogo dove chiunque, religioso e non, sente molto forte quella che è l’identità ebraica.’’

    Due ebrei, tre opinioni. Questo si dice quando in una disputa non si riesce a trovare una soluzione, ed è vero anche nella composita realtà sociale di questo Stato, che in uno spazio fisico paragonabile al Lazio ospita la sacra Gerusalemme e la profana Tel Aviv ad un’ora di macchina. Un paradosso vivente. Ma forse è giusto così, perché è questa la funzione di Israele: essere il luogo dove tutti, ma proprio tutti gli yehudim possono sentirsi a casa.

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